Abbi cura di te e di mio fratello

Cuore
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Arianna mi aveva affidato un messaggio che era difficile ignorare, dopo il legame che era nato tra noi in ospedale. Avevo visto anche quanto Davide fosse affezionato a lei. Quando lo chiamai, non lo sapevo, ma ne ero già innamorata

 

storia vera di Rosa R. raccolta da Francesca Stucchi

 

A 24 anni ho perso un figlio, a 35 il mio compagno e mi sono ritrovata sola. Che storia terribile la mia. Per questo non l’ho mai raccontata. Le sofferenze si sono accumulate l’una sull’altra come grossi massi depositati sull’uscio di casa, finché l’ingresso è stato murato.

Non uscivo più, non cucinavo, non mi lavavo, non provavo sensazioni, né sentimenti. Anche i pensieri, ormai, si dilegua- vano dissolvendosi in un nulla oscuro senza ritorno.

Giornate pigre, sonnolenti, inutili si susseguivano, mesi fugaci e anni impietosi passavano. Finché persi i capelli. Un tumore al seno mi costrinse ad andare in ospedale. Non posso dire di aver sofferto molto, mi sembrava in realtà di osservare la vita di un’altra persona, la mia l’avevo persa da tempo. Fui ricoverata per un periodo, le condizioni generali non erano granché buone e bisognava che mi rimettersi un po’ prima per sostenere le cure necessarie. La camera n. 8 diventò la mia nuova casa.

Spaesate compagne di stanza, avvolte in foulard colorati e nuvole di paura, andavano e venivano silenziose, senza la- sciare traccia. Io invece restavo, i valori nel sangue erano sempre sballati e rischiavo di non poter continuare la terapia.

Un mattino d’estate, dopo la tac, trovai la stanza occupata da una ragazza minuta, con la pelle bianchissima, un caschetto bruno e lo sguardo spento. «Ciao, sono Rosa» mi presentai.

La ragazza mi fece un cenno di saluto senza dire il suo nome. Poco dopo entrò un ragazzo magro e pallido almeno quanto lei. Trovai i suoi lineamenti leggermente irregolari, come se seguissero la direzione del ciuffo. Una maglietta celeste a maniche corte lasciava intravedere una scritta tatuata sul braccio sinistro: “So di non sapere”. La riconobbi all’istante, non solo perché ricordavo la citazione di Socrate, filosofo che avevo amato negli anni del liceo, ma perché quella saggezza basata sul “so di non sapere” racchiudeva la mia conoscenza, le mie contraddizioni e l’incessante ricerca di verità a cui aspiravo fin da bambina. Vederla incisa nella pelle di quel ragazzo fu come una scossa elettrica.

Non potei fare a meno di pensare che avrei dovuto tatuarmela io, ma fu un pensiero rapido, non sono una che ha l’intraprendenza di fare queste cose. Il giovane si sedette accanto alla ragazza, le prese la mano e l’accarezzò premuroso sussurrandole parole che non riuscii a sentire. Distolsi lo sguardo per lasciarli nella loro intimità.

La nuova compagna di stanza, una sera, mi parlò di lui: era suo fratello maggiore, a cui era pro- fondamente legata. «È il mio angelo custode, il mio porto si-curo» mi rivelò con gli occhi lucidi e in quelle parole sentii strepitare tanto amore e un’immensa fiducia, che io non sapevo nemmeno di desiderare. Davide arrivava tutti i pomeriggi, si sedeva accanto al letto di sua sorella e cominciava a raccontare storie di viaggi incredibili. Fu lui a rivelarmi il suo nome: Arianna.

Davide aveva girato il mondo, l’America gli aveva offerto libertà, l’Asia spiritualità, in Africa aveva ridimensionato abitudini e ambizioni, ma era in Europa che aveva deciso di vivere, nel- la bella Italia incoerente e piena di slanci, in un luogo ameno intriso di storia e bellezza, che tanto amavo anch’io, forse per- ché c’ero nata. Abitava con la sorella in un paesino nella campagna senese e, pur essendo originario di Como, nel suo par- lare si sentiva a tratti la calata toscana, che inconsapevolmente aveva fatto sua.

Arianna teneva gli occhi chiusi, immergendosi nei coinvolgenti racconti di suo fratello, chissà se dormiva o sognava.

Io mi giravo su un lato e ascoltavo incuriosita le descrizioni accurate di luoghi insoliti e sconosciuti, di persone e realtà tanto diverse dalle nostre. Quel ragazzo aveva il dono di rappresentare le esperienze che aveva vissuto, facendole apparire vive davanti a noi. Che viaggi ci siamo fatti in quei pomeriggi d’estate nella stanza n. 8!

E perfino qualche risata, quando ci raccontava le sue avventure e disavventure. Una volta per procurarsi il pranzo era scivolato in un fiume cercando di afferrare un grosso pesce, aveva dormito in una piccola stalla abbracciato a una pecora e parlato a lungo con un indigeno sulla situazione della foresta amazzonica, senza che nessuno dei due avesse capito una paro- la di quello che diceva l’altro, finché alla fine ci avevano bevuto su, accettando un intruglio tossico che lo aveva fatto vomitare per giorni.

Arianna ogni tanto apriva gli occhi e gli stringeva la mano, avevo l’impressione che i due fratelli si ritrovavano così in una magica intesa. Peccato essere figlia unica.

Una notte mi svegliai di soprassalto per il rumore ferroso della barella che due infermiere stavano spingendo nella nostra stanza. Arianna fu portata via con urgenza. Alzai la mano per salutarla, ma non mi guardò. Tastai il comodino in cerca degli occhiali e mi ritrovai tra le dita un foglietto con una scritta verde, riconobbi la penna che aveva lei: “Abbi cura di te e di mio fratello” e un numero di telefono. Picchiai un pugno sul letto. «Se ne va» dissi tra i denti e non riuscii a frenare lacrime amare che zampillarono fuori dagli occhi, allagandomi di dolore. Non ero stupida, uno se lo sente quand’è il momento. Arianna poi, anima delicata e sensibile, era attenta a certi segnali e li avvertiva prima degli altri.

Andò proprio così, in un istante persi la mia compagna di stanza e da quel momento la n.8 cominciò a starmi stretta, sempre più stretta, finché mi sentii  soffocare. Firmai per uscire dall’ospedale. Il medico scrisse sopra la mia firma che me ne andavo a mio rischio, ma io sapevo che rischiavo di più a stare lì.

Chiamai un taxi che mi riportò a casa. L’appartamento puzzava di chiuso, ero via da molto tempo, benché non ricordassi da quanto. Aprii le finestre e vi s’infilò un aria umida, intrisa di goccioline evaporate dopo il temporale notturno, tolsi dalla tasca il foglietto con la scritta verde e lo sistemai sul comodi- no. Era tutto quello che mi re- stava di lei. Avvertii uno strappo al cuore, era decisamente troppo poco. Senza una foto ne avrei presto dimenticato i lineamenti, le espressioni del viso, lo sguardo. Mi rimaneva una sola cosa da fare, comporre quel numero.

Riconobbi il “pronto?” dall’altra parte, era Davide. «Sono Rosa» mi sforzai di mantenere un tono di voce normale, ma tremavo come una foglia.

«Sei riuscita a rintracciarmi?» mi chiese stupito.
«Ho trovato un biglietto sul comodino la notte che Arianna se n’è andata, con un messaggio e questo numero».

«È stata lei» intuì Davide.
«Sì» risposi con un filo di voce. «Voleva che restassimo in contatto» aggiunse lui con dolcezza.
E noi siamo rimasti in contatto. Davide e Arianna abitavano a una trentina di chilometri da casa mia.
Nell’afa di agosto presi l’auto, mi addentrai tra le crete senesi, l’auto assecondava le morbide curve, l’asfalto pareva gonfiarsi sotto le ruote e mi lasciavo cullare dalla strada e dalla musica leggera alla radio. Raggiunsi la loro casa in cima a una collina.
Il cancello era aperto, parcheggiai nel cortile ghiaioso e m’in-camminai verso l’ingresso. Davanti a me un’antica dimora in pietra con uno stupendo portico ombreggiato. Davide stava sulla porta ad aspettarmi, contro sole. Cercai di non incrociare il suo sguardo, temendo di rivedere quello di Arianna. Lei comunque fu subito lì con noi, con la sua presenza eterea, un poco più lieve di allora. «Accomodati» mi disse Davide distogliendomi da quel sogno così vero e introducendomi in un soggiorno ampio e luminoso.

«Che bello qui» fu l’unica cosa che riuscii a dire, inghiottendo più volte la saliva.

Dalle grandi finestre tende leggere annodate di lato lasciavano intravedere un incantevole spettacolo naturale, campi gialli di grano si distendevano al sole, interrotti qua e là da sentieri di cipressi che conducevano a isolati casolari. Come si può non innamorarsi di un posto così?

Davide mi raccontò che avevano acquistato la casa quando, alla morte dei genitori, si erano ritrovati soli con il bisogno di staccare da un mondo che non gli apparteneva più. Avevano  lasciato Como e si erano trasferiti in Toscana, in una terra più calda e soleggiata, che ricordava loro la spensieratezza delle vacanze estive di quando erano bambini.

Avevano progettato di trasformare quell’antica dimora in un agriturismo, un investimento che avrebbe portato loro un’entrata economica e un po’ di compagnia. Avrebbe fatto bene a entrambi. Avevano chiesto preventivi per una ristrutturazione, su una credenza erano disposte piantine e disegni tecnici con appunti a matita. Ora però Davide era solo con progetto troppo impegnativo da realizzare. «Non si farà più nulla» concluse sedendosi sul divano. Mi sedetti anch’io, confusa, addolorata, eppure affascinata da tanta meraviglia.

«Dimmi qualcosa di te» mi chiese per cambiare discorso. Cominciai a parlare di cose banali all’inizio e poi, come un fiume in piena, uscirono fuori anche le sofferenze che mi avevano segnata. Davide preparò il caffè che mi offrì con cioccolatini al lampone, li mangiai tutti intanto che le vicende del passato riaffioravano come fiori dal fango. Mentre parlavo sentivo la presenza di Arianna. Pareva uno di quei pomeriggi in ospedale, solo che questa volta ero io a raccontare. Tirai fuori gli avvenimenti della mia esistenza come un mago che estrae qua lunque cosa dal cappello. Quanta vita avevo dentro!

Non seguii un ordine, gli eventi e le emozioni si incrociavano e si mescolavano, i tempi si aggrovigliavano, ma in quel racconto tra le colline assolate c’era tutta la mia storia.

Era la prima volta che la raccontavo a qualcuno. Piansi. Perché l’avevo fatto? Non me lo spiegai, Davide era poco più di uno sconosciuto, ora l’unico a sapere tutto di me. Troppe emozioni si stavano condensando in quel soggiorno, Davide allora alleggerì il momento invitandomi a uscire in giardino, una piccola oasi fiorita nell’arida campagna, con aiuole di lavanda e surfinie.
Immaginai Arianna innaffiare le rose al tramonto. Le ore erano volate e una leggera brezza ci sfiorava la pelle, rigenerandoci. «È tardi, devo rientrare». Non che avessi altro da fare, lo dissi più per convincermi ad andare. Davide mi accompagnò alla macchina, era davvero rassicurante la sua vicinanza, intuivo ora cosa intendesse sua sorella quando lo definiva un porto sicuro. Lo ringraziai.
«Arianna è stata felice di vederti qui oggi» mi assicurò. Anche lui evidentemente l’aveva sentita vicina più che mai. Che bel regalo ci aveva fatto!

Alcuni giorni dopo mi richiamò, dalla voce mi sembrava più sereno, avrei voluto invitarlo da me, ma la casa non era in ordine e io non ero presentabile, così fui vaga e declinai. Avevo ricominciato a mangiare qualcosa e ingurgitavo una gran quantità di vitamine, ma il tumore progrediva, dovevo decidermi a tornare in ospedale. Nel frattempo qualcosa dentro di me era cambiato, quel pomeriggio a casa di Davide mi aveva mosso belle sensazioni e addirittura, avevo paura a pensarlo, desideri. La sua casa era stupenda, meritava di essere rimessa in vita, di accogliere viandanti, coppie e famiglie in cerca di tranquillità. tranquillità. Quanto mi sarebbe piaciuto aiutare Davide a realizzare il progetto che aveva iniziato a coltivare con Arianna. L’idea si era insinuata nella mia mente  sull’onda di un’emozione e mi frullava in testa, infondendomi un’insolita energia.

Il 15 agosto ero di nuovo in ospedale, che fosse Ferragosto in realtà lo scoprii proprio lì. Mi fissarono una visita per il giorno seguente e mi avviai lungo un nuovo sentiero di cura, difficile, doloroso, necessario. Facevo avanti e indietro dall’ospedale, attanagliata dalla stanchezza, ma sostenuta dalla speranza. Per la prima volta in vita mia sentivo di meritarmi di guarire e di vivere appieno.

Un giorno di settembre, di cielo azzurro solcato da paffute nuvolette in volo verso sud, sobbalzai allo squillo del campanello. Sbirciai dalla finestra, era Davide con la camicia a righe infilata nei jeans, una mano in tasca e l’altra a sistemarsi tra i capelli. Non potevo aprirgli conciata com’ero in quel momento. Ma non potevo nemmeno lasciarlo andare via.

Corsi in bagno, buttai acqua fredda sul viso, avvolsi il foulard sulla testa e lo legai stretto, mi specchiai, mi guardai, in fondo mi aveva vista in ospedale, quella ero io. In un istante decisi che potevo scendere.

«Rosa, finalmente, dov’eri sparita?». Era contento di vedermi e sembrava non avesse notato la mia condizione. Mi guardava sorridente, tranquillo.

«Entra» dissi velocemente prima di cambiare idea. Mi raccontò che aveva deciso di avviare la ristrutturazione della casa, aveva sparso sul pavimento tutte le piantine e passava le notti a studiare come sistemare gli spazi e a progettare i locali. Gli dissi che l’avrei aiutato: «Posso occuparmi dell’interno, sono un architetto sai? Non so quanto ricordi dei miei studi, ma potrei dare una rispolverata ai vecchi libri e alla mia creatività». Una risata sincrona ci sorprese all’improvviso.

Non aspettai che mi venisse il coraggio, d’istinto lo abbracciai. Davide mi strinse forte, spazzando via ogni incertezza. Restammo così per un tempo che non saprei dire, breve e insieme infinito. «Sono felice» mi disse commosso. Anch’io lo ero, o almeno credo, perché la felicità non so mai bene come sia. Però mi sentivo come se nella mia stanza buia si fossero spalancate all’improvviso cento finestre. Avevo voglia di salire in camera, indossare il mio vestito preferito, ridiscendere dalla scala come una principessa e uscire sotto- braccio con lui.

«Ti va di andare a mangiare una pizza stasera?» proposi. Davide accettò volentieri e mi portò a Siena. Passeggiammo sotto una fresca pioggerellina estiva riparati da un unico ombrello e cenammo a lume di candela parlando di futuro. Fu così che un ordinario 22 settembre diventò la giornata più bella della mia vita.

Insieme ce l’avremmo fatta, avremmo realizzato il sogno di Arianna, perché nessun dolore, nessuna malattia e nessuna perdita è più forte della vita, quando finalmente ti prende per mano e ti sussurra che non è finita. ●

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Articolo pubblicato su Confidenze n. 31 2023

 

 

 

 

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