Amore ai tempi del remoto

Cuore
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Amore ai tempi del remoto, pubblicata sul n. 11 di Confidenze, è la storia più votata della settimana nella pagina Facebook. Ve la riproponiamo sul blog

 

Per rivitalizzare il mio matrimonio, ho seguito il consiglio di un’amica, sperimentando un piacevole diversivo che mi permetteva di giocare “a distanza” con mio marito. Per un po’ ha funzionato. Poi la curiosità mi ha spinto a fare un passo in più

STORIA VERA DI VIOLETA B. RACCOLTA DA ANNA BALTIA DELFINI

 

Credo sia cominciato tutto per colpa di quella “t”. Sì perché io credo nel destino del nome, tutti hanno il destino nel nome. La mia collega Claudia è una sempre restia a prendere decisioni e guarda un po’ il suo nome significa “claudicante” in latino, come di chi zoppica virtualmente sulle incombenze della vita, senza riuscire a tracciare un percorso coerente. Poi c’è mia madre che si chiama Costanza e manco a dirlo è una che sa esattamente in che modo ottenere qualcosa, mio marito invece si chiama Paolo che in sintesi vuol dire “piccolo” e non c’è altro da aggiungere. Insomma non ho mai creduto nel destino, ma da qualche anno ho dovuto in qualche modo ricredermi. Mi occupo di antroponomastica, che non è una parolaccia, ma indica solo lo studio dell’origine e il significato dei nomi. Sono impiegata presso una società araldica che lavora soprattutto sugli alberi genealogici di famiglie perlopiù nobiliari, ma da qualche anno, complice la voglia delle persone di saperne di più sulle origini della propria “stirpe”, è stata aperta una sezione speciale che offre un resoconto dettagliato sull’origine e il significato dei nomi propri. Io mi occupo di questo e per me, ex psicologa mai iscritta all’albo, è stata una sorta di manna per riciclare un po’ il mio percorso di studi. Insomma sono finita a occuparmi di nome e “destino”. Ecco il mio di destino, ne sono convinta, sta in una “t”. O meglio stava. Già perché mia mamma voleva chiamarmi Violetta, un nome profumato e allegro che voleva omaggiare la Violetta Valery della Traviata che sì in effetti non faceva una bella fine, ma era pure una che faceva impazzire gli uomini. Il problema è che mio padre, miope e anche un filino rimbambito, quando fu il momento di registrarmi all’anagrafe, si dimenticò una “t” e invece dell’eroina romantica, oggi porto il nome di un personaggio di una telenovela venezuelana degli anni ‘90 molto amata da mia zia. Il problema è che la Violeta televisiva era buona e morigerata, io invece non troppo. Mi accomuna tuttavia alla versione televisiva il fatto di non essere la protagonista, non tanto della serie, ma proprio della sua stessa vita. Io mi sono sempre sentita così, il personaggio minore della vita di qualcun altro. Senza contare che senza quella “t” che mi avrebbe donato il fascino irresistibile della Valery, sono pure sempre stata una frana con gli uomini. «Guarda che le ragazze simpatiche non piacciono a nessuno».

Mia madre me lo ripeteva con la “costanza” è il caso di dire di una perfetta massaia educata agli stereotipi patriarcali, anche se in fondo so che a modo suo voleva dirmi qualcosa di utile, per conquistare un uomo “come si deve”. Il fatto è che se sei ironica per natura non ci può fare proprio niente, anche se ho scoperto col tempo che tutto sommato mia madre non aveva tutti i torti. Agli uomini, in buona parte, non piacciono le ragazze spiritose. Le vedono più come amiche o, ecco che fatalmente ritornava il destino della mia omonima venezuelana: come l’amica della ragazza a cui puntavano e che bisognava in qualche modo ingraziarsi. Un’adolescenza distrutta insomma. A ogni modo alla fine il mio uomo “come si deve” l’avevo trovato: Paolo, un tipo stempiato sui 40, trasferitosi dal sud a Torino per fare fortuna e finito a fare le buste paga per i dipendenti della società araldica in cui ci eravamo trovati entrambi a lavorare. Certo non l’avevo notato per la bellezza, aveva il naso storto e lungo e una dentatura vagamente equina, le mie amiche mi prendevano in giro dicendo che assomigliava a Sid, il bradipo del film L’era glaciale che era uscito in quel periodo e che avevano visto tutti i loro figli. Paolo non era un sex symbol insomma, ma era simpatico, almeno così mi era parso. Ci eravamo sposati in fretta e preso casa dalle parti di San Salvario, allora non sapevamo fosse il quartiere della movida torinese e il fatto che il prezzo di vendita fosse una vera occasione non ci aveva per nulla insospettiti. È stato allora che è cominciato tutto.

Maledetto il giorno che abbiamo comprato questa casa!

Paolo non faceva che strillare e lamentarsi tutto il tempo. Il suo problema era legato al fatto che il nostro appartamento si trovasse proprio sopra uno dei locali più frequentati della città e nel weekend non era insolito trovare manipoli di ragazzi all’entrata con birra e sigarette in mano. A mio marito non era mai piaciuta la movida, figurarsi il rumore che poteva derivarne! A me non dava fastidio, le chiacchiere e le risate di quei giovani mi ricordavano i miei anni spensierati, che in fondo solo da poco mi ero lasciata alle spalle. Ero in quell’età in cui si è ancora troppo giovani per sentirsi vecchie, ma anche già troppo vecchie per sentirsi giovani. A volte mi sembrava però di trovarmi in una seconda adolescenza, forse perché non avevamo figli, e nel giro di qualche anno ero tornata più sbarazzina e allegra, più desiderosa di riempirmi la vita. Paolo sosteneva che fossi in una specie di fase regressiva, ma lo bacchettavo divertita sostenendo che ero io la psicologa nella coppia. Il rumore dei giovani nel fine settimana in realtà era stato l’ultima sferzata che aveva vigorosamente incrinato il mio matrimonio. Non mi divertivo più con Paolo, nemmeno a letto. Forse la cruda verità era che non mi ero mai divertita. Era più una di quelle unioni equilibrate e “pettinate”, in cui tutto segue un iter educato e composto dalla scelta del ristorante dove andare a cena al vestito da comprare per il matrimonio di mia sorella. «Perché non provi l’ovetto?» mi aveva proposto un giorno Claudia in pausa pranzo. Le avevo domandato di che parlasse e mi aveva spiegato che si trattava di un piccolo affarino legato a un’applicazione gestibile in remoto, attraverso la quale si poteva “stimolare” il piacere femminile. Lì per lì ne ero rimasta scioccata, soprattutto perché mai nella vita avrei pensato che Claudia ricorresse a certe “dinamiche”, ma poi lei mi aveva spiegato che era stata un’idea del marito per farli sentire vicini anche nei lunghi mesi di distanza durante i quali il marito, militare, era in missione. Volevo fingermi disinteressata, ma ero davvero incuriosita. Senza pensarci oltre ero andata sul sito dell’azienda che commercializzava questi “ovetti del piacere” e avevo letto con sussiego e attenzione tutte le caratteristiche del funzionamento. In pratica una volta acceso l’aggeggio e collegato con l’applicazione, non bisognava fare altro che “indossarlo” e generare un link da inviare al proprio partner. Con il link si potevano poi scegliere varie opzioni e perfino accompagnare il tutto con della musica o anche partecipare a una specie di videogioco dove, a seconda di come si saltavano gli ostacoli si produce che ero io la psicologa nella coppia. Il rumore dei giovani nel fine settimana in realtà era stato l’ultima sferzata che aveva vigorosamente incrinato il mio matrimonio. Non mi va un certo tipo di vibrazione. Sul sito erano presenti una sfilza di testimonianze positive, inoltre l’aggeggio era raccomandato da un gruppo di terapisti come metodo efficace per rilasciare endorfine e abbandonare lo stress. Dovevo provarlo. Con un po’ di audacia o forse avventatezza, alla fine lo avevo acquistato online. Avevo fatto aprire la confezione a Paolo, che ci aveva messo quei buoni dieci minuti a capire cosa fosse. Dapprincipio anche lui aveva avuto una reazione un po’ scioccata, ma in ultimo si era convinto a provarlo, perché forse si era reso conto che la nostra vita sessuale era davvero priva di fantasia. «Lo metto stasera» avevo esordito, in occasione di una cena con alcuni amici in un ristorante anche un po’ chic nel centro città.

«Cosa?».
«L’ovetto».
«Ma sei matta?».
«Perché? Dài amore potrebbe essere divertente».

Paolo aveva messo in atto ogni forma di resistenza di cui era capace e così alla fine avevo acconsentito a non “testare” la novità proprio a una cena formale.
Mentivo. Una volta a cena, dopo l’antipasto e qualche inutile chiacchiera, avevo inviato a Paolo il link. Vedevo tutto l’imbarazzo che gli attraversava il volto insieme alla voglia di scappare il più lontano possibile.

Mi aveva scritto qualche messaggio con tono minatorio per cercare di dissuadermi, ma la mia risposta era stata ancor più minacciosa: “Sai che questa app ce l’hanno milioni di persone, magari perfino qualcuno qui in questo ristorante? Potrei attivare l’opzione ’trova giocatore nei paraggi’… Che ne pensi?”.

Paolo mi aveva guardato con tutta la disapprovazione possibile, ma alla fine aveva ceduto. Era stato un vero disastro, non so se l’avesse fatto apposta, ma sotto la spinta delle sue “onde” avevo finito per rovesciare addosso alla nostra amica 120 euro di vino, trascinando la tovaglia. Non solo. Avevo lanciato un urlo che aveva spaventato a morte il cameriere, facendogli rovesciare un altrettanto prezzolato primo di pesce nella generosa scollatura di una signora a un tavolo a fianco. Oltretutto di fronte alla scena dello scampo affacciato fra i seni della donna non avevo potuto trattenere una sonora risata, cosa che aveva prodotto lo sdegno comune della sala.

La serata era finita malamente, fra scuse e imbarazzo. Paolo non aveva voluto parlarmi per giorni, eppure io nonostante il terribile collaudo, mi ero divertita da matti, soprattutto ripensando alla scena dello scampo. Era tutto così grottesco e anomalo eppure, al tempo stesso, prepotentemente fuori dal mio grigio ordinario che, nonostante mi sforzassi di scacciare quel pensiero, ero sempre più interessata a testare tutte le proprietà “magiche” dell’ovetto.

Una sera tornando dal lavoro, mentre Paolo rincasava veloce, avevo armato la scusa di una compera dell’ultima ora e mi ero invece fermata proprio al locale sotto il nostro appartamento a sorseggiare un bicchiere di bianco in solitudine. Volevo solo un po’ di brio nella mia vita di Violeta senza la doppia “t”, il personaggio secondario della telenovela venezuelana di cui nessuno si sarebbe ricordato, anche perché poi Topazio, la protagonista della serie, era bellissima e il confronto improponibile. In quelle trame di amori contrastati e confessioni fugaci, la povera Violeta compariva sempre solo pochi istanti e praticamente da corredo a tutto il resto. Io dovevo diventare Violetta

Valery invece, perché anche se per tutti era solo una cortigiana, il mistero del suo fascino e la bellezza prorompente le avrebbero infine donato l’amore di Armando, un giovane gagliardo e appassionato. Ancora non lo sapevo ma stavo finalmente per vivere anch’io una trama da protagonista. O almeno così credevo.

«E il marito lagnoso dove l’hai lasciato?». La voce squillante alle mie spalle era quella di un ragazzo che avevo visto spesso nel weekend a fare baldoria con gli amici sotto casa mia. Un bel ragazzo senza ombra di dubbio, uno che così su due piedi avrei ben candidato al ruolo di Armando. Lì per lì in realtà avrei voluto rispondergli per le rime, dopotutto come si permetteva? Armando o no, ero una signora sposata con la sua dignità! Più o meno… Ma qualcosa mi aveva frenata.
«Posso offrirtelo?» aveva aggiunto con inaspettata galanteria. Nel giro di pochi minuti era riuscito a sciogliere il ghiaccio e a farmi sentire a mio agio, dovevo ammettere che anche se doveva avere almeno 15 anni meno di me, ci sapeva fare. Quello era stato solo il primo di tanti altri bicchieri di vino insieme, all’insaputa di Paolo che si ostinava a regalarmi inutili risposte monosillabiche, ancora offeso per la serata dell’ovetto.
Si chiamava Thomas ed era un musicista spiantato, ma innegabilmente interessante. Alla fine, forse complice anche un po’ di vino, gli avevo raccontato dell’episodio imbarazzante, ne avevamo riso insieme e mi aveva improvvisamente confessato di avere anche lui la stessa applicazione, eredità di una ex con cui l’aveva provata e che poi era rimasta nel cellulare.

Quella sera stessa gli avevo lasciato il mio numero. Non c’era voluto molto poi perché inviassi il fatidico link anche a lui. In realtà ci avevo pensato per giorni, tormentandomi all’idea di un tradimento, seppure virtuale, consumato alle spalle di mio marito, ma alla fine avevo ceduto.

Una sera in cui Paolo era fuori con gli amici, avevo inviato il link a Thomas. Era online. Aveva risposto subito e accettato il gioco. Avevo scoperto così che non ci sapeva fare solo con le parole. Quella sera provai sensazioni mai raggiunte in una vita intera, alla fine dell’esperienza ero totalmente appagata ed esausta. Era riuscito davvero a toccarmi nel profondo e senza neppure mettermi un solo dito addosso anche se ora pensavo a lui, al suo corpo, e riuscivo a immaginarmelo vividamente. Da quella sera, la mia immaginazione aveva iniziato avida a nutrirsi di quella fantasia che ci vedeva insieme, anche se distanti. Le vibrazioni erano sempre giuste, la musica che mi faceva ascoltare con il Bluetooth collegato alle cuffie mentre di fatto faceva l’amore con me a distanza, era quella adatta, sapeva riconoscere i miei desideri come nessun uomo e non riuscivo più a farne a meno. I nostri incontri a distanza avevano iniziato a farsi sempre più ravvicinati nel tempo e piano piano senza che nemmeno me ne rendessi conto, il desiderio di trasformare quella fantasia in realtà era diventato fortissimo. Avevo cercato in tutti i modi di combatterlo, ma quel nome, quella T al principio del suo nome che forse era proprio quella che mancava al mio, per essere finalmente anche io come Violetta Valery, la più desiderata fra le desiderate era la sua. Dopotutto il suo nome significa “gemello” e io già cavalcando con la mente mi dicevo che lui poteva essere niente meno che proprio la mia anima gemella.
Sotto la spinta di questa suggestione e assediata ormai dalle continue pressioni di Thomas, avevo accettato di incontrarlo a casa sua. Era stato molto romantico, più di quanto non fosse mai stato Paolo almeno. Mi aveva cucinato un’ottima cena e avevamo chiacchierato e riso come al solito, per poi finire l’una nelle braccia dell’altro, desiderosi di provare entrambi quella trasgressione “dal vivo”. Purtroppo per me alla fine della serata avevo dovuto tristemente ammettere che fare l’amore virtualmente con Thomas era molto meglio che farlo nella realtà e che tutto sommato, nonostante Paolo non fosse mai stato particolarmente focoso, era sempre riuscito a farmi stare bene.Thomas dal canto suo sembrava estasiato e desideroso di replicare l’esperienza. Non era stato facile per me fargli capire che dovevamo chiudere, sia dal punto di vista virtuale che dal vivo. Non appena rientrata a casa infatti, ero stata assalita da un enorme senso di colpa, Paolo dopotutto era sempre stato quello che mia madre definiva un uomo “come si deve” e forse l’unica cosa che gli mancava era quel pizzico di fantasia in più, tanto a letto che nella quotidianità.

Non ho avuto mai il coraggio di confessare il tradimento a mio marito, che per fortuna aveva smesso di essere offeso e distaccato, tuttavia non ho mai disinstallato l’applicazione e neppure gettato via il famigerato ovetto. Anzi, ogni tanto attivo la funzione “rileva giocatori” e invio il link a perfetti sconosciuti, che ovviamente non ho nessuna intenzione di incontrare. Talvolta è davvero entusiasmante, altre meno, ma sento di aver raggiunto il giusto compromesso. Dopotutto, tecnicamente, non è un vero e proprio tradimento, lo considero piuttosto un “aiutino”. Che non toglie nulla al nostro matrimonio.

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