Battito d’ali

Cuore
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La storia più apprezzata del n. 13 di Confidenze è…

 

Ho ritrovato il diario che tenevo in quei giorni, mentre aspettavo. Vorrei che Beatrice potesse leggerlo per rendersi conto di quello che ho provato. Abbiamo un rapporto unico noi due, specialissimo e impalpabile

STORIA VERA DI ROBERTA G. RACCOLTA DA FRANCESCA STUCCHI

 

Sono cresciuta a Milano, ultima di quattro fratelli, in un nido di 70 metri quadri, troppo piccolo per noi, ma tanto accogliente. I nostri genitori, entrambi insegnanti, ci hanno offerto tutto il bene del mondo e le opportunità di sperimentare e imparare, assecondando le nostre inclinazioni e i nostri desideri. Io ho potuto frequentare una scuola di pattinaggio artistico due volte alla settimana, fino a 19 anni. Sono sempre stata affezionata alla mia città, ma il mio sguardo cercava i rettangoli di cielo che s’intravedevano tra i tetti dei palazzi, le mie orecchie desideravano silenzi e connessioni profonde in mezzo al traffico cittadino e al vociare continuo. In cuor mio sapevo che i sogni di libertà, prima o poi, mi avrebbero portata lontano.

A 30 anni ho provato la gioia di essere mamma. Beatrice è una bambina adorabile, mi guarda con gli occhioni intelligenti e afferra le mie dita con le sue manine cicciottelle. L’ho tanto desiderata, ancora prima di trovare l’uomo che avrebbe chiamato papà. Ho sempre avuto in mente il suo viso, le guance morbide, il nasino tondo, i capelli biondi leggermente mossi. Non che avessi il desiderio ostinato di avere figli, piuttosto lo davo per scontato. Le famiglie che conoscevo erano tutte tradizionali, impegnate nel custodire un amore quotidiano tra le mura domestiche, con buoni risultati oltretutto, almeno in apparenza.

Io e Gerardo ci siamo sposati a 22 anni e non ci pareva di essere giovani, allora. Abbiamo fatto tutto per bene, dediti al lavoro, alla cura della casa, al volontariato, a un figlio non abbiamo pensato. Gli anni, intanto, sono volati. Non restavo incinta, ma non avevo voglia di domandarmi perché. Sorridevo quando mi veniva posta la classica domanda, quando sarebbe stato il momento sarebbe arrivato anche un bambino, o meglio una bambina, ero convinta io. Un’insolita sera di febbraio notai allo specchio una donna diversa, dal profilo definito, un po’ rotondo solo nella zona dell’addome. “Se fossi incinta?” mi domandai accarezzando la pancia e l’idea. In effetti

le mestruazioni mi sarebbero dovute arrivare la settimana precedente. Ci confidai, per la prima volta. Ogni giorno senza ciclo consolidava l’ipotesi di una gravidanza, mi sentivo così strana… Furono giornate lunghissime, la sera, dopo il lavoro, leggevo romanzi sorseggiando tazze fumanti di tisana al lampone, nel ritmo lento dell’attesa.

A Gerardo non dissi nulla, neanche nell’intimità, perché non volevo rompere la magia, però già fantasticavo su come sarebbero stati i mesi a venire. Il desiderio cresceva ben prima del pancione. Avevo come l’impressione che una bimba mi scrutasse dalla finestra e mi pareva addirittura di sentire la sua risata, così sonora che le sarebbe venuto il singhiozzo. Furono 12 giorni surreali, in cui mi sentii, inaspettatamente e orgogliosamente, sempre più confusa, curiosa, eccitata, premurosa, nel vortice di emozioni che fanno di una donna una mamma.
Il tredicesimo giorno mi svegliai terrorizzata, con un terribile presentimento sospeso tra incubo e realtà: una forte emorragia spazzò via la vita che si stava formando nel mio grembo. Non avevo nemmeno fatto il test di gravidanza e ora non ce n’era più bisogno. Piansi a lungo delusa, distrutta, sentendomi terribilmente sola.
In quei giorni si era formato qualcosa dentro di me che se n’era andato troppo presto, ma era rimasto abbastanza per lasciarmi addosso la consapevolezza che diventare mamma sarebbe stata la cosa più bella del mondo. Non raccontai a nessuno di quell’esperienza, la custodii nell’anima restando in attesa, un’attesa che, ancora non immaginavo, era destinata a durare.

Dopo qualche mese fissai un appuntamento presso un centro sterilità cittadino e con mio marito iniziai un percorso di analisi che si prolungò per quasi un anno. Visite, esami, e l’esito fu che non vi erano impedimenti per avere figli: “risultati nella norma”. Suonava come una buona notizia, in realtà lasciava al destino tutte le possibilità.

Nessun bimbo bussò più alla porta del nostro amore, così decidemmo di tentare la strada della fecondazione assistita. Aspettammo lunghi mesi, finché ebbi la gioia di vedere le due lineette blu sul test di gravidanza. Gerardo era al settimo cielo, io rimasi cauta, impaurita, in equilibrio sul filo sottile di una gravidanza iniziata già in salita.

Durante l’ecografia vidi per la prima volta la mia bambina. Era così piccola, ma già riconoscibile, ne notai il profilo fine, delicato, mi sembrò meravigliosa. Cieli azzurri e nuvolosi si susseguirono nell’alternarsi delle stagioni, battaglie di angosce e speranze si scatenarono dentro di me. All’ospedale, immersa nei rumori ritmici dei monitoraggi, nelle confidenze sussurrate dalle compagne di stanza, nei pianti dei neonati, cullavo il mio sogno piccino piccino. Mi avevano ricoverata per un distacco della placenta, le continue perdite mi ferivano come lance. Per dare spazio alle emozioni che mi trasudavano dalla pelle, ho cominciato a scrivere un diario. Ogni pagina iniziava così: “Cara Beatrice” e finiva con “Ti voglio bene. Mamma”. L’ho ritrovato quel diario, vorrei che Beatrice potesse leggerlo per rendersi conto di quello che ho provato. Abbiamo un rapporto unico noi due, specialissimo. Non sono tutte uguali le relazioni tra mamma e figlia. La nostra è leggera e indissolubile, fatta di tempo soffice, indefinito, di musiche e pazienza, profuma di mare e di vaniglia e ha l’intensità di un’onda gigante.

Ho compiuto 40 anni quest’anno e Beatrice, purtroppo, non è mai nata. Il distacco della placenta, per cui mi avevano ricoverata allora, era segno di qualcosa che non andava e il peggio sarebbe inesorabilmente accaduto.

Vani dolorosi tentativi e speranze sempre più deboli hanno lasciato il posto a una particolare, impensata serenità. Gerardo e io ci vogliamo molto bene e, dopo tanti anni, abbiamo accettato il fatto che certi sogni non si possono realizzare. Ci siamo trasferiti nelle Marche, in un appartamento vicino al mare. Ci siamo resi conto che l’amore che non abbiamo potuto donare alla nostra bambina sarebbe esploso come una bomba nel nostro petto, se non avessimo trovato qualcuno a cui offrirlo. Così abbiamo cominciato a lavorare come volontari in un’associazione che aiuta i bimbi con malattie rare. Il tempo che dedichiamo a loro è un dono prezioso per i bambini e per noi, che ci sentiamo in fondo “genitori di cuore” di quei piccoli bisognosi di cure e attenzioni speciali. Non è facile confrontarsi ogni giorno con la sofferenza e con l’assenza di piani efficaci di cura, sorridere anche quando sappiamo che la situazione è critica, ma il nostro entusiasmo infonde coraggio alle mamme e ai papà e anche i bambini sono più sereni. La forza ce la dà il nostro angelo, quella delicata presenza che ci ha sfiorato una volta con le sue ali, prima di innalzarsi verso il cielo. Per un imperscrutabile destino la nostra famiglia non si è allargata, è rimasta una piccola bolla zeppa d’amore. Qualche volta, mentre passeggiamo sulla spiaggia e, nell’azzurro, coppie di gabbiani intrecciano rapidi voli, mi sembra ancora di sentire battere in me un doppio cuore.

Sarà un’illusione o forse è la mia Beatrice che mi viene a salutare. ●

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