Ci vediamo a mezzanotte

Cuore
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Ecco la storia più votata del n.47 

 

È stata la sua ultima promessa prima di uscire. Quella domenica aveva il turno di sera. Non è più tornato. Ho deciso di raccontare di lui e del nostro amore perché i giovani capiscano che gli eccessi alla guida generano solo inferni di vite bruciate

STORIA VERA DI MARIACONCETTA ZACCANELLI RACCOLTA DA MARCO ANGILLETTI

 

mezzanotte. Le caldane estive hanno ceduto il passo al primo fiato di freddo. Siamo tutti qui sul ciglio della strada, accanto all’incrocio maledetto, illuminato dalle scie arancioni di pochi lampioni. Sembriamo fantasmi in carne e ossa spuntati sulla statale 106 Jonica, la strada della morte, regina delle arpie che avvinghia prede umane e le conduce verso il sonno eterno. È già passato un anno dalla morte di mio marito Massimiliano. I suoi 47 anni polverizzati dalla volata di un’auto che si è schiantata contro la sua, mentre tornava in centrale insieme al collega Antonio dopo il lavoro. Due guardie giurate segnate dallo stesso destino.

Nella ricorrenza del primo anniversario abbiamo organizzato un momento di ricordo proprio qui, sullo scampolo di asfalto dove a lui sono state donate le ali e a me è stato strappato il cuore. Ci sono i colleghi, con le macchine di servizio dai lampeggianti accesi, tutti in divisa, come lo era Massi. Il sangue gli è esploso sul viso come un barattolo di vernice lanciato con furia contro il muro da un pittore scellerato; gli ha battezzato la fronte, le labbra e infine la divisa, sotto cui i palpiti di un cuore buono hanno smesso di orchestrare.

C’è un silenzio ossequioso, interrotto soltanto dalle auto che continuano a sfrecciare, incuranti delle tante lapidi sui fianchi della carreggiata. Poggio un mazzo di fiori a terra, le lacrime cadono giù mentre i palloncini a elio puntano al cielo, incoraggiati da lunghi applausi. Somigliamo a statuine del presepe in attesa di miracoli che nessun Messia compirà. Sono un animale senza tana, una lupa smagrita che non sa più ululare né leccarsi le ferite, a stento riesce a difendersi. Mia sorella Nicoletta e mio fratello Mario stanno dietro di me, due gladiatori pronti a sfoderare spade di protezione. Il dolore ha devastato un’intera comunità, ha riempito pagine di giornali, bacheche di Facebook e chiacchiere da bar. Ci eravamo promessi uno sconfinato sempre e per sempre e, invece, dopo 16 anni insieme, mi addormento sul suo cuscino e solo i nostri cani occupano l’altra metà del letto.

Insieme a noi c’è Laura, la sorella di Massi, sul suo volto i solchi di una guerriera con l’anima dilaniata. Lei per me è una sorgente di ricordi: lo stesso accento toscano, i lineamenti, ogni cosa mi parla di quel fratello del quale Laura si è presa cura con la premura di una madre. Ci abbracciamo e ci sosteniamo a vicenda, per amore, per giustizia. Questa notte più che mai, chino il capo e rivedo tutta la nostra storia incisa sull’asfalto. Massimiliano è stato il più bel dono che Dio potesse farmi, proprio quando non volevo più saperne di un cammino con un uomo. Era la fine di settembre del 2006. Lui non lo vedevo da anni, viveva a Firenze ed era venuto in Calabria dalla sorella. Dopo un tira e molla di iniziale vergogna, ci eravamo concessi una serata spensierata. La chiesetta di Capo Colonna, a strapiombo sul mare, donò complicità alle chiacchiere da buoni amici, seduti sui gradini del santuario. Mi sembra di vederlo, gli occhi lucenti e il corpo scolpito dai muscoli sotto la maglietta a righe bianche e verdi. Percepivo il suo istinto di abbracciarmi. Il garbo di un uomo chiedeva alla mia disillusione il permesso di accarezzarla e io, stranamente, non lo interpretavo come una minaccia.

Poco prima di partire, mi invitò di nuovo a cena. Giunti nel piazzale del ristorante, si avvicinò al mio sportello e, all’improvviso, sentii le sue labbra sulle mie. Assaporammo i brividi di un desiderio soffocato nei giorni precedenti. Quando la pioggia si impadronì del dopocena, ce ne restammo abbracciati in auto sul lungomare e venne fuori tutta la sua anima passionale, attenta, guaritrice. Avevamo il sole tra i sedili.

Il rientro in Toscana ingarbugliò i lacci delle mie scarpe, sebbene le continue telefonate dimostrassero che avevo sciolto ogni nodo. Volevamo vederci ancora e trovai una scusa per raggiungerlo. Arrivò gongolante alla stazione di Santa Maria Novella, l’abbraccio sui binari faceva più chiasso di tutti i treni. Mi portò in giro per Firenze, nella sua quotidianità, e la prima notte insieme fu perfetta, aveva pensato a ogni dettaglio. Mi fece conoscere il fratello Alessandro e la moglie, due anime rare che insegnano la bellezza della vita tramite gli occhi del cuore.

La famiglia era tutto per Massi. Aveva perso il padre all’età di cinque anni. Con Laura e Alessandro vivevano come i tre moschettieri: uno per tutti, tutti per uno. L’incidente ha violato per sempre il loro cordone ombelicale e Alessandro continua a ripetere che Massi sarà la sua luce.

Asincronia. I nipoti facevano il tifo per noi, soprattutto Alessio, legato allo zio da sentimenti unici. La notte del nostro primo Capodanno mi chiese di sposarlo e gli risposi di sì, senza esitare, perché avevo di fronte uno scrigno di valori e benevolenza, capace di ascoltare e calmare le mie ansie. Mollai tutto e mi trasferii da lui.

Massimiliano era come il mare: ti travolgeva con cavalloni di vitalità, sapeva cullarti con la delicatezza dei gesti o affogarti con le sue chimere, offriva la pace delle onde e svelava orizzonti migliori.

Per questo amava il mare: in quel verdazzurro si specchiava il suo spirito. La sua barca ora è ferma lì, sconsolata per i viaggi che non potrà più intraprendere con il suo capitano.

Il nostro matrimonio? Una fiaba! Lui era agitatissimo, con i lacrimoni, talmente emozionato che sbagliò la lettura delle promesse. Stringendomi la mano, disse: «Io, Mariaconcetta, prendo te» e una risata generale spezzò l’emozione. «Adesso sei davvero mia per sempre» mi sussurrò sul sagrato. Il per sempre è stato per Massi un dolce tarlo; ha trascorso una vita con la paura di perdermi e invece, alla fine, io ho perso lui. Mi chiedo spesso come mai la vita si sia ostinata a sputarci addosso tanta severità in numerose prove, se bastava il colpo di grazia finale. Malgrado ciò abbiamo sempre vinto noi, uniti contro ogni ostilità. Quando non siamo riusciti a dare una discendenza al nostro amore, non ce ne siamo fatti una colpa e abbiamo continuato a vivere con lo stesso slancio, anche se la mancanza di figli ci ha segnati molto. Massi stravedeva per i nipoti, catalizzava l’amore da padre mancato verso quello di zio onnipresente, in particolare con il piccolo Andrea.

«Tutto ciò che faremo, sarà per loro» ripeteva. Lo osservavo giocare con i bimbi, si piegava alla loro altezza e inventava personaggi: era un padre straordinario, pur non avendo mai stretto tra le braccia un figlio tutto suo.

Lasciammo Firenze per trasferirci definitivamente in Calabria, io con il lavoro da infermiera, lui come guardia giurata. Costruimmo una nuova capanna tra gli uliveti e lo Jonio. Quanto era bello quando si donava ai miei genitori, specie con papà, nel quale rivedeva il padre mai vissuto. E quante risate appena bacchettava mia madre per le troppe sigarette.

Prima del triste evento, stavamo affrontando l’ennesima prova. Massi doveva subire un’operazione e, anche se erano problemi risolvibili, il suo umore era molto negativo. Quasi un presentimento di infelicità. Ho vissuto uno strano segno nei giorni in cui era ricoverato. Mi ero rifugiata in chiesa e, al momento della comunione, fui travolta da un pianto incessante. Fissavo il crocifisso e chiedevo protezione per Massi, disperata. Uno sfogo anticipatorio per la tragedia che avrebbe raso al suolo il nostro invidiabile teatro a due posti. Rientrati a casa, Massi appariva pensieroso. Avrebbe dovuto restare a riposo e invece, come tante altre volte, l’altruismo lo fece desistere.

«Torno al lavoro. L’azienda è in difficoltà e c’è bisogno di me». Ero molto contrariata, però alla fine vinse lui.

Quella domenica, l’ultimo giorno di vita terrena, ci siamo vissuti come al solito. Mentre pranzavamo mi ha fissata e mi ha chiesto: «Ci siamo baciati oggi?». Il bacio era il nostro potente scudo di gratitudine per fortificare l’amore, come i nostri grazie, prego, scusa.

Aveva il turno di sera. Gli preparai la cena da portare con sé, si mise a giocare alla Playstation e, prima di uscire, mi diede il solito bacio.

«Io vado, amore, ci vediamo a mezzanotte».
Ci siamo sentiti mentre era in servizio, aveva la voce insofferente, mi raccomandò di aspettarlo a letto. Quando quella notte spensi la luce, il buon Dio prese un fiammifero e accese una candela eterna. Un numero che non era in rubrica mi svegliò di colpo, tra le grida lancinanti di un vigilante.

«Scendi subito, corri! Massi è morto».
Non feci in tempo a realizzare che mi ritrovai sul luogo dell’incidente. In una macchina aziendale tutta accartocciata c’era il dono più bello della mia vita. Il fratello cresciuto troppo in fretta, il figlio orfano di padre, il giovane che si era rotto la schiena come taglialegna e aiutante al mercato per comprare una moto, l’amico che trainava il gruppo nelle serate di liscio, il re delle pizze nel forno a legna con un passato da fornaio, il vigilante onesto, il marito che organizzava la caccia al tesoro con frasi scritte su pietre di mare. Quante pagine di vita bruciate. Il secco, così lo chiamava l’adorato compare, era lì tra le lamiere. Sacrificato come un agnello.

Ho iniziato a urlare, sentivo il petto squarciato a crudo, il cuore è diventato cenere.

«Ci vediamo a mezzanotte», era stata l’ultima promessa. Un’auto aveva invaso la sua corsia, a mezzanotte, nell’ora che fa da spartiacque tra la fine e l’inizio. Le sue labbra diventate fredde in una notte di settembre, nella stessa data in cui diversi anni prima iniziavamo a scaldarci allo stesso fuoco.

Ho conservato l’ultima sigaretta accesa nel posacenere, la tubolare della divisa sporca di sangue, gli ultimi vestiti. Ora Massi è una sedia vuota, rumore di passi nel silenzio, parole di elogio dei colleghi, un 15 novembre senza candeline da spegnere. È il vuoto dell’anziana madre trafitta dal peggiore dei dolori, il ricordo dell’amico Valerio che dorme con la sua foto sul comodino. È il segno della croce ogni volta che passiamo davanti a questo sciagurato incrocio. Questa notte, inginocchiata sul ciglio della strada, prometto al nostro amore di onorarlo fino all’ultimo dei miei tramonti. Massi era un faro per tutti: la sua luminosità ci ha arricchiti, rendendoci persone migliori. Racconterò di lui, soprattutto ai giovani, affinché si rendano conto che eccessi e disattenzione alla guida generano inferni in cui tutto brucia e tutto tace. Credo sia l’unico modo per dare un senso a questo dramma. La parabola di mio marito diverrà il mio vangelo. Ogni vita salvata sulla strada sarà il suo bagliore di eternità. Sarà un giglio di mare cresciuto in mezzo all’asfalto, un fiore di amore sbocciato dal pianto. ●

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