Il nostro amore

Cuore
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Leggi sul blog Il nostro amore di Elena Vesnaver, pubblicata sul n. 46, è la storia più apprezzata dalle lettrici su Facebook

 

Lei era friulana, lui sardo. I miei nonni si incontrarono in tempo di guerra e andarono contro tutto e tutti per vivere insieme. Nonna Luigia non c’è più, ma ricordo come descriveva un matrimonio fatto di poche parole e tanta intesa. Mi sembra ancora di sentire la sua voce

 

Storia vera di Luigia Picotti raccolta da Elena Vesnaver

 

Mi chiamo Claudine e la storia dei miei nonni l’ho sempre adorata, come adoravo loro per l’amore che sapevano darsi, per come si guardavano, per come erano insieme. Mi piacerebbe che mia nonna Luigia potesse essere qui a raccontarla, ma non è possibile e allora mi immagino che lo farebbe proprio così…

Poveri ragazzi, poveri, poveri ragazzi. Non avevo mai pensato che un ospedale potesse essere l’inferno, ma eravamo in guerra, mica a fare una scampagnata ed era pieno di giovani fatti a pezzi che chissà come sarebbero tornati a casa, se tornavano a casa. Io ero lì a fare le pulizie, ma non serviva essere un dottore, o una di quelle infermiere che non sapevano più dove sbattere la testa per capire che era peggio del macello. Poveri, poveri ragazzi. Antonio era uno di loro.

Mi ricordo la prima volta che l’ho visto, era il 1917, agosto, faceva caldo, tanto. Avevo finito di lavare il pavimento del corridoio, che era un lavoro infinito con tutti quelli che entravano e uscivano, e poi c’era tutto quel sangue. Ho acceso una sigaretta e tirato una lunga boccata, perché una pausa me la meritavo.

È stato allora che l’ho visto. Era su una barella e non sembrava stare male come altri: era pallido, ma rispondeva alle domande del medico. Dopo, ho saputo che era un eroe e gli avrebbero dato una medaglia perché aveva salvato il suo comandante che era stato ferito durante uno dei tanti attacchi sull’Isonzo. Hai capito, quel morettino lì che pareva niente.

Ho buttato la cicca e sono tornata al lavoro. Però quel soldato mi è rimasto in testa e, quando ho finito il turno, ho pensato che non c’era niente di male a cercarlo, a vedere come stava: non sembrava delle nostre parti, magari aveva bisogno per avvertire la famiglia che era vivo, oppure niente, tanto per sapere.

Lo avevano messo in un lettino vicino alla finestra. Era sempre pallido, ma quando mi ha visto ha sorriso e pure io. Gli ho offerto una sigaretta, ma lui non la voleva, anzi, gli sembrava tanto strano che io fumassi. Ho provato a spiegargli che i dottori ci avevano detto che se fumi ti salvi dalle infezioni polmonari, che in ospedale è necessario, e pure che mi piaceva, ma lui continuava a guardarmi stupito. Forse anche perché parlavo sempre in friulano e dopo un po’ ho capito che lui era sardo e parlava il suo dialetto. Insomma, non eravamo tanto bravi con l’italiano, anzi, niente, solo qualche parola, ma alla fine ci siamo ritrovati a ridere dei nostri strambotti. Sono tornata a trovarlo ogni giorno. Parlavamo delle nostre famiglie: io gli ho raccontato che avevo una sorella gemella, precisa a me, ma precisa, lui che aveva due sorellastre e un fratello più piccolo, e che suo papà lo aveva avuto vecchio.Vecchio… a 43 anni, ma quella volta a me che ne avevo 20 pareva vecchio come il cucco. Gli ho detto che venivo da un paese che si chiama Premariacco, in Friuli, mentre lui veniva dalla Sardegna. La Sardegna, un’isola che solo a pensarci mi veniva paura, e il suo paese si chiamava Sanluri, e questo mi faceva meno spavento perché suonava un poco come friulano.

Ogni sera andavo da lui e sera dopo sera ci siamo innamorati, ma innamorati tanto, innamorati che niente altro era importante.Volevamo sposarci subito, non potevamo più stare lontani: è strano, no? Una storia che comincia dal niente, in mezzo alla guerra, fra i feriti, i morti, la distruzione. Eppure per l’amore c’è sempre posto e il nostro amore aveva preso spazio, era diventato così grande, così importante che non si riusciva a pensare a una vita diversa, una vita che non fosse fatta da me e Antonio, per sempre.

«Guardate che mi voglio sposare» ho detto a casa e tutti hanno risposto che andava bene. Ma quando ho specificato che mi sposavo con Antonio hanno iniziato a dire che nessuno lo conosceva, che non era dei nostri e che stava su un’isola. Ti immagini, un’isola che è lontana poi, chissà che gente trovi, ci sono solo lupi e banditi e chissà cosa mangiano, chissà come vivono e come saranno le loro case? No, tu quello non lo sposi, escluso, piuttosto dalle monache, piuttosto a servizio, ma Jesusmaria, no che non lo sposi.

Sono stata zitta, ho ascoltato mia mamma che piange- va, mio papà che bestemmiava, mia sorella che faceva le smorfie come per dire che lei mai più. Ho ascoltato buona anche il resto della famiglia che aveva la sua da dire.

Poi sono andata in camera, ho preso l’abito bello, quelle quattro cose di biancheria, la spilla di vetro comprata al mercato, ho stretto tutto nello scialle e me ne sono andata. Ancora mi ricordo che mi chiamavano e gridavano cose che si dicono quando si è arrabbiati, ma non mi sono mai girata. Ho continuato a camminare dritta, e se mi è venuta qualche lacrima, l’ho asciugata veloce.

Antonio mi aspettava come per un appuntamento dei soliti nostri e quando mi ha vista arrivare con il fagotto, ha fatto due occhi tanti.
«Per me siamo sposati» gli ho detto tutto d’un fiato e quando mi ha preso la mano ho capito che era così anche per lui. Non so se mi hanno mai perdonata a casa. Quando sono tornata, una volta, tanti, tanti anni dopo, ho capito che non era successo. O forse ero solo io che mi sentivo una straniera dopo tanto tempo e altrettanta vita passati lontana da lì. Chissà.

Insomma, sono andata a vivere con Antonio e, quando lui ha avuto il congedo dall’esercito, siamo partiti per la Sardegna, quell’isola che faceva paura anche a me con tutta quell’acqua attorno. Ma ero con lui, ci amavamo, il resto era niente.

Siamo andati a vivere a Sanluri e non è stato facile. Toccava a me, ora, essere la diversa, la straniera. In casa di Antonio non ero la sua donna, ero “l’austriaca”, quella di cui non ci si poteva fidare, quella che fumava come le donne da poco: anche se sapevo fare tutto, non bastava perché lo facevo in un modo diverso, che non andava bene per loro. Antonio era lo stupido che era andato a cercarsi la moglie fra

gente strana, con quelle usanze mai viste. Quando ho scoperto di aspettare Ernesta, la nostra prima figlia, ho pensato che non ce la facevo più. Non potevo, meglio sola, in strada, meglio chiedere la carità che dover sopportare. Ad Antonio non ho detto niente, ma lui mi capiva, lo sapeva e mi amava come io amavo lui. Così un giorno che mi vedeva triste mi ha presa da parte e mi ha detto: «Devi stare tranquilla, facciamola nascere sana e forte questo bambina, poi ci sposiamo, che ci vuole, e ce ne andiamo».
«E dove?» gli ho chiesto.
«In un posto nuovo, un posto dove non ci conosce nessuno e possiamo vivere in pace. Andiamo in Francia, un compaesano ha detto che cercano operai come il pane». Ernesta è nata a giugno del 1921, noi ci siamo sposati un mese dopo, soli soli con la nostra bambina, e siamo partiti per la Francia, per una città che si chiamava Grenoble.

C’erano tanti italiani in quegli anni a Grenoble. Per la verità non proprio nella città grande, ma vicino, in una cittadina che si chiama Vif, dove Antonio ha trovato lavoro in una fabbrica di cemento e dove sono nati i nostri due maschi, Louis e Adolphe.

La vita era faticosa, ma per me era un paradiso. Finalmente avevamo una casa nostra, anche se non era un castello, avevamo un po’ di soldi per tirare su i figli e per mangiare e vestirci, avevamo un futuro e finalmente potevamo parlarci. Prima, fra sardo, friulano e italiano per modo di dire, non riuscivamo neanche a litigare come si deve. Invece là abbiamo imparato bene il francese ed era tutta un’altra musica, anche le litigate.

Io ho scoperto le Gauloises, quelle sì che sono sigarette, e nessuno aveva niente da ridire se fumavo, neppure Antonio, povera anima: gli sarebbe piaciuto che smettessi e non me lo ha mai chiesto, però.

Eravamo felici sul serio. Avevamo i figli, avevamo il nostro amore da vivere, nessuno mi chiamava austriaca, nessuno diceva ad Antonio che era nato fra i briganti. Quando la sera i bambini dormivano e avevamo un po’ di pace, io e lui parlavamo. Di cosa? Di tutto. Del lavoro, delle cose da comprare che i soldi dovevano arrivare dappertutto. Discorsi da povera gente, ma in quel silenzio qualche volta ci prendevamo la mano e a me pareva di tornare indietro nel tempo e che Antonio fosse ancora il soldato moro di 20 anni che mi aveva fatta innamorare. Sì, una vita da povera gente, però io stavo bene così.

Poi un giorno Antonio torna a casa e mi dice che a Echirolles, un paesino ancora più vicino a Grenoble, hanno aperto una fabbrica di viscosa.
«Cos’è la viscosa?» ho chiesto io.

«Una fibra, come una seta, e ci fanno i tessuti» mi ha spiegato lui. «Ma la cosa più importante è che non hanno costruito solo la fabbrica, ma anche delle casette per gli operai che ci lavorano, casette vere, belle, con l’acqua corrente dentro». L’acqua corrente in casa? Un lusso! «Il lusso è che mi pagherebbero di più» ha continuato ridendo lui. «Se mi prendono, tu potresti stare tranquilla con i bambini».

Tutto molto bello, solo che a fare la donna di casa e basta non mi ci vedevo. Sarei andata a lavorare pure io in quest’azienda, che i soldi non bastavano mai per tutto. Così sono diventata un’operaia come Antonio e lo stipendio era buono davvero. Ci ha fatto molto comodo perché sono nati altri tre figli, Catherine, Marie e Roger e la nostra casetta con l’acqua corrente era sempre piena di strilli e di risate.

La paga era buona, ma il lavoro non era bello per niente. Ore e ore nel caldo, nell’umido e con la puzza di uova marce sempre nel naso. In certi reparti avevi da fare con gli acidi e tirare il filo era difficile, ma non ci siamo mai lamentati: andava come era giusto che andasse e noi non abbiamo mai avuto paura della fatica.

Nel 1935 poi, è successa una cosa bellissima, la nostra famiglia è riuscita ad avere la cittadinanza francese. Ora davvero facevamo parte del Paese che ci aveva accolti e che avevamo imparato ad amare, che ci aveva dato lavoro, stabilità e dei bravi figli.

Antonio aveva smesso di lavorare in fabbrica e faceva il manovale, io invece ho continuato ancora per qualche anno e i miei figli, tutti, sono passati per la fabbrica. Catherine ci è stata addirittura 20 anni. Lì ho conosciuto tanta gente, tanti immigrati che venivano da Paesi che neppure mi immaginavo: c’erano addirittura dei russi che erano scappati dalla loro terra perché c’era stata una rivoluzione.

A un certo punto però, la guerra è arrivata. Di nuovo. Qualche volta penso che la guerra si è presa tanto spazio nelle nostre vite, troppo spazio.
Io e Antonio ci siamo conosciuti durante una guerra, dopo ne è arrivata un’altra, terribile, e Louis, il nostro primo maschio, ha fatto il partigiano sulle montagne dell’Oisans.

Poi Adolphe ha combattuto in Indocina e Roger in Algeria. Troppa, troppa guerra, troppa. Ne abbiamo passate, ma eravamo insieme, ci siamo fatti coraggio io e Antonio, pure quando Louis non si sapeva dov’era e sapevamo solo cosa gli avrebbero fatto se lo prendevano. Ci tenevamo la mano stretta e non serviva parlare.

A un certo punto la guerra è finita, finiscono sempre, bene o male. Il tempo era passato e noi siamo andati a vivere in una grande fattoria dov’erano stati costruiti degli appartamenti.

Là viveva anche mia figlia Catherine che si era sposata da poco con un ragazzo che era stato in montagna con Louis e lì sarebbero pure nati i suoi due bambini.

Che torre di Babele era la fattoria. Eravamo tante famiglie e si sentivano le lingue più strane, gli odori più diversi quando era l’ora di preparare da mangiare. Ma si stava bene, si poteva anche litigare qualche volta, ma mai in modo cattivo, si dicevano le proprie ragioni e via. Era un bel modo di vivere e credo che i figli di Catherine siano cresciuti bene anche per questo, hanno capito che è giusto accettare che l’altro non sia identico a te. Io che non so stare con le mani in mano ho ripreso il mio vecchio lavoro, quello da ragazza, e mi sono offerta di tenere pulite le zone comuni della fattoria e di fare anche il bucato e stirare, se ce n’era bisogno. Antonio lavorava sempre da manovale, i figli facevano la loro vita e andava bene così.

Fra me e Antonio non sono mai servite tante parole. Ne avevamo passate, eravamo tutti interi noi e anche i figli. Alla sera era bello stare vicini e tenersi la mano, non per farsi coraggio, ma per sapere che eravamo io e lui, sempre. Io penso che Antonio avesse nostalgia della Sardegna e di casa sua. Non me lo ha mai detto sul serio, ma credo di averlo capito, anche perché dopo la guerra non è più riuscito ad avere notizie da lì. Lo so che per lui è stato come un coltello ficcato nel cuore.

Io sono tornata una volta in Friuli con Catherine e Roger, ma non mi è sembrata più la mia terra: non perché ho trovato cambiamenti, non poteva che essere così, solo continuavo a pensare che non avevano capito me e Antonio, la forza del nostro amore, e allora di cosa potevo avere nostalgia? Sarà che noi donne siamo più pratiche, più con i piedi per terra.

Io e Antonio non abbiamo mai avuto bisogno di fare grandi discorsi, invece la figlia di Catherine, Claudine, non faceva che chiacchierare e chiedere, chiedere, chiedere. Si sa come sono i bambini, curiosi e sempre pronti a domandare perché questo, perché quello. Anche i miei figli erano stati così, però quando erano piccoli io dovevo lavorare,

mica avevo tempo, ma con Claudine è stato diverso. Claudine voleva sapere della mia vita, di come mi ero innamorata del nonno, se sua mamma da piccola era buona o cattiva, del lavoro in fabbrica. Passavamo pomeriggi interi a parlare e io ritrovavo la pazienza e la dolcezza che non sapevo di avere.

Quando rimanevo a lungo a parlare con Claudine, Antonio ogni tanto ci diceva che basta, che non ne poteva più di sentirci, ma io lo so che invece gli faceva piacere, al mio Antonio.
Mi ha fatto ricordare tante cose, Claudine, cose dimenticate, che facevano pure un poco di male, cose che mi ero ripetute soltanto nella mia testa mentre facevo il bucato, cucinavo, o tiravo il filo di viscosa in fabbrica. Nel raccontargliele qualcosa magari gliel’avrò pure migliorata un po’, per forza.

Solo una cosa non so se sono riuscita a dirgliela bene come volevo perché è difficile descriverla e per quella le parole non ci sono: io e Antonio, le nostre mani insieme, il nostro amore.

 

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