La gioia più grande

Cuore
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Come mai le altre mamme erano il ritratto della felicità? Perché io non mi sentivo così? Mi vergognavo tanto che non osavo parlarne

Storia di Claudia T. raccolta da Manuela Zanoletti

Di Stefano mi innamorai in un istante. Quando per la prima volta i nostri occhi si incontrarono fu come specchiarsi. Stefano aveva un volto familiare, come se ci fossimo già conosciuti. Capimmo subito che eravamo fatti l’uno per l’altra. In ogni suo gesto o parola trovavo l’uomo che avevo sempre sognato. Avevamo interessi simili, lo stesso modo di fare e di affrontare la vita, la spontaneità e la voglia di costruire insieme qualcosa di bello.
«Caspita» mi diceva la mia amica Anna «certo che sei stata davvero fortunata. Lui è perfetto per te: siete praticamente uguali. Però tutto questo andar d’accordo non è deleterio alla lunga? Sai l’amore si nutre anche di passione e di emozioni forti».
Io sorridevo maliziosa. Non mi andava di raccontarle di quelle mani che sapevano accarezzarmi così bene, dei suoi baci infuocati, del suo corpo stretto al mio in una danza lenta e appassionata… Solo a pensarci mi venivano i brividi. La nostra intimità era l’esperienza più intensa e travolgente che avessi mai vissuto con un uomo: non potevo chiedere di meglio.

Ma Stefano era fantastico anche in tutto il resto. Nel lavoro non mancava certo di spirito d’iniziativa. Faceva l’impiegato nello studio di un commercialista, ma era anche esperto di informatica e marketing, e con un paio di amici aveva aperto un’attività di compravendita su Internet. Io invece studiavo all’università, ancora un esame e qualche ritocco alla tesi e in pochi mesi mi sarei laureata in Scienze della Comunicazione. Volevo diventare una giornalista e niente e nessuno mi avrebbe impedito di realizzare il mio sogno. Infine per guadagnare qualche soldo, lavoravo come cameriera in una pizzeria. Insomma la mia vita era perfetta, piena di impegni, soddisfazioni e soprattutto d’amore. Avevo 22 anni ed ero così ingenua. Ancora non sapevo che la sorte è capricciosa e non sempre le cose vanno come abbiamo programmato. Così succedeva a me. Un ritardo del ciclo di qualche giorno, cosa per me abbastanza inusuale, una leggera nausea e una marcata sensibilità agli odori furono i primi sintomi. Pensavo che fosse solo un malessere passeggero, visto che usavo la pillola come anticoncezionale. Dopo una settimana di ritardo cominciai a insospettirmi seriamente. Feci il test di gravidanza della farmacia e con mio grande sgomento risultò positivo. Per sicurezza feci anche gli esami del sangue, in ospedale, che in un attimo spazzarono via qualsiasi incertezza: aspettavo un bambino. Non ero per niente contenta della novità, anzi sarebbe meglio dire che ne ero quasi sconvolta, l’idea di diventare madre così giovane mi terrorizzava.

La sera stessa lo avevo detto a Stefano. Pensavo che anche lui fosse spaventato come me e che, di comune accordo, avremmo deciso per l’interruzione della gravidanza. Invece mi abbracciò con impeto.
«È una notizia bellissima!» aveva esclamato.
Io non credevo alle mie orecchie. «Ma Stefano sei sicuro? E tutti i nostri progetti?».
Lui mi aveva guardato stranito. «Il nostro progetto più importante è quello di stare insieme per sempre, o hai forse cambiato idea?».
«Ma no, certo» dissi mordendomi le labbra. «È che mi sembra così presto per una cosa così grande».
«Hai qualche dubbio su di noi?».
Lo rassicurai subito: «Lo sai che ti amo e lo sappiamo entrambi che prima o poi ci sposeremo. Pensavo solo che… Insomma avrei voluto godermela ancora un po’, stare soli noi due insieme, costruire qualcosa».
Lui aveva sorriso e preso le mie mani tra le sue. «Amore» mi disse piano «questo non cambierà nulla nella nostra vita, casomai la renderà ancora più ricca e completa. E riguardo al tuo costruire, credo che per una donna avere un figlio sia la cosa più grande che possa creare. Farai un bambino, il nostro bambino».
I suoi occhi vibravano di gioia mentre io mi sentivo un po’ stupida perché non riuscivo a provare le sue stesse emozioni.
«Andrà tutto bene vedrai, te lo prometto» mi disse in un soffio. Stretta nel suo abbraccio, con la testa appoggiata sulla sua spalla, mi sentii al sicuro. E tutti i dubbi piano piano svanirono.

Nei giorni seguenti scoprii che essere incinta non era un’esperienza piacevole. Vomitavo tutte le mattine, avevo nausee costanti e mi sentivo stanchissima, nonostante non facessi quasi nulla in tutto il giorno. Stefano era sempre presente, dolce e premuroso. Non smetteva mai di ripetermi quanto mi amava e quanto sarebbe stata meravigliosa la nostra vita a tre. Ogni tanto mi proponeva di andare a fare acquisti per il bambino, attività che a me risultava del tutto indifferente. Avrei preferito di gran lunga andare a fare una corsa in campagna o un giro in bicicletta, cose che mi erano ovviamente precluse.
Detestavo l’idea di non essere più padrona del mio corpo e di non poter più fare ciò che volevo. Solo dopo il quinto mese cominciai a stare un po’ meglio, riuscii così a dare il mio ultimo esame all’università e a finire di scrivere la tesi. E finalmente prepararmi per la laurea. Per anni avevo sognato il momento in cui mi sarei laureata, vestita con un bel tailleur elegante, i  capelli raccolti in uno chignon e l’aria sveglia e professionale. Invece mi ritrovai con un immenso pancione di otto mesi, ingrassata di 15 chili, con i piedi e la faccia gonfi. In uno dei momenti più importanti della mia vita avevo dovuto indossare uno stupido prémaman, e mi ero sentita brutta e goffa. Dopo la discussione avevo fatto le consuete foto con la corona d’alloro, ma niente passeggiate o bisbocce con lo spumante. Al ristorante avevo mangiato pochissimo perché il mio “bambinone” occupava un sacco di spazio, anche quello in cui avrebbe dovuto esserci il mio stomaco. Inoltre mi era tornata la nausea a causa di un farmaco anti-contrazioni. Cercai di non far trapelare il mio disagio, familiari e amici mi facevano i complimenti e festeggiavano per il mio traguardo, mentre io correvo in bagno ogni venti minuti e non riuscivo a godermi la festa come avrei voluto.

Per fortuna dopo due settimane il mio calvario finì. Alla trentottesima settimana smisi di prendere il farmaco e dopo poche ore mi trovai alle prese con dolori atroci. Stefano era in ufficio, ma mi aveva raggiunto subito. Arrivata in ospedale ero già troppo dilatata per qualsiasi tipo di anestesia. Mi mandarono direttamente in sala parto, mentre tutto scorreva veloce intorno a me. Non capivo più niente, sentivo solo dolore e una voce autorevole che continuava a ripetermi di spingere. E così feci. Urlavo mentre spingevo, una, due, tre volte. Poi all’improvviso tutto il dolore svanì e vidi finalmente il mio bambino. Stefano piangeva di gioia, io ero esausta. Delicatamente l’ostetrica aveva appoggiato il piccolo sulla mia pancia e il contatto, pelle contro pelle, con quel corpicino caldo e morbido mi ripagò di tutti gli sforzi fatti e di quella terribile gravidanza ormai finita. Adesso so, come ogni madre sa, che non avrei mai potuto provare gioia e amore più grande di quelli che stavo provando in quel momento, per la mia piccola e meravigliosa creatura. Dopo pochi giorni fummo dimessi dall’ospedale. C’eravamo trasferiti nel bilocale di Stefano, che da buon padre voleva perdersi il meno possibile della crescita di Giulio. Sapevo che per lui era un grosso impegno economico: l’affitto, la spesa, le cose per il neonato, tra cui anche il latte perché, nonostante ci avessi provato in tutti i modi possibili, non riuscivo a nutrire il mio bambino.
Non riuscire ad allattare fu per me un duro colpo. Vedevo ovunque madri orgogliose che offrivano il seno ai figli, e io dovevo limitarmi a dargli un biberon di latte in polvere. Inoltre avevo accumulato almeno una decina di chili superflui, che non volevano proprio andare via e che contribuivano a farmi sentire poco attraente agli occhi di Stefano. Il primo mese poi era stato davvero pesante. La prima settimana Giulio non era cresciuto abbastanza e così la pediatra mi aveva consigliato di dargli sette pasti al giorno, ogni tre ore, compresa la notte. Da testarda e orgogliosa quale ero avevo rifiutato l’aiuto delle nonne e avevo deciso di fare tutto da sola.

Giulio cresceva bene, il suo papà ci amava follemente e le mie amiche non facevano altro che ripetermi quanto fossi fortunata. Anna in particolare non passava giorno senza venire a trovarmi. Giulio era uno spettacolo e in sua presenza si esibiva in meravigliose faccine e smorfiette varie. «Ma chi è il bimbo più bello del mondo? Sei tu vero? Vieni tesoro dalla zia Anna!» e lo prendeva in braccio per coccolarselo un po’. «Sento un profumino poco piacevole. Che dici Claudia, bisogna cambiare il pannolino?» mi aveva chiesto.
Io avevo sbuffato infastidita. «Come al solito» era stato il mio aspro commento. Non credo ci fosse cattiveria nei miei gesti, ma nemmeno molto amore. Avevo cambiato il pannolino a Giulio senza nemmeno dirgli una parola, sotto gli occhi allibiti di Anna. Il piccolo aveva accennato qualche piccolo lamento che avevo ignorato. Poi lo avevo rimesso nelle braccia amorevoli di “zia Anna”.
«Va tutto bene?» mi aveva chiesto preoccupata. «Mi sembri un po’ assente».
Io feci un gesto di diniego. «Sono solo stanca. A proposito non ti andrebbe di portare Giulio a fare un giro nel parco? Ha mangiato un’ora fa e l’ho appena cambiato. Credo che possa avere un paio d’ore di autonomia così io posso farmi un sonnellino».
Anna non aveva commentato e, messo Giulio nella carrozzina, era uscita. Io mi ero buttata sul divano e mi ero addormentata subito. Ero a pezzi, ma non solo fisicamente. Cervello e cuore erano divisi in due. Non capivo più cosa mi stesse succedendo. Amavo profondamente il mio bambino, ma allo stesso tempo la sua presenza mi infastidiva. Non potevo fare più nulla di quello che facevo prima: niente sport, niente lavoro e avevo dovuto accantonare, chissà per quanto tempo, il mio progetto di fare un master in giornalismo. Ogni volta che ci pensavo mi veniva da piangere. Ma poi mi trattenevo perché non potevo capacitarmi di non essere felice. Ogni neomamma che conoscevo sprizzava gioia e amore da tutti pori. Tutte a parlare dei loro cuccioli, di poppate, ruttini e pannolini, con una serietà tale da farmi rabbrividire. Io, invece, dopo pochi minuti mi annoiavo, avrei voluto parlare d’altro, dire loro che esistevano mille argomenti di conversazione. Mi stupiva molto vedere come a loro piacesse accudire i loro bambini mentre a me pesava ogni piccola cosa. E con quanta gioia lo facessero mentre io ero sempre più frustrata e infelice.

Insomma: come mai le altre mamme erano il ritratto della felicità? Perché io non mi sentivo così? Cosa c’era in me di sbagliato? Suonarono alla porta, Anna stava rientrando dalla passeggiata con il mio bambino ed era ovviamente entusiasta. «Giulio è stato bravissimo, ha dormito per più di un’ora. Poi quando si è svegliato era di ottimo umore: non ti dico quante persone mi hanno fermato per guardarlo e lui elargiva sorrisi e smorfiette a tutti. Non t’immagini nemmeno i complimenti che gli hanno fatto».
Io ascoltavo come inebetita. «Non preoccuparti non sono gelosa» avevo commentato acida, «puoi venire a prendertelo quando vuoi». Poi una vocina cattiva mi aveva fatto pronunciare una frase terribile. «E se Giulio ti piace così tanto, puoi anche tenertelo, io ne faccio volentieri a meno».
Anna aveva sgranato gli occhi ed era ammutolita. Io mi ero resa conto con orrore dell’enormità che avevo pronunciato. Ma era solo l’inizio dell’uragano che si stava scatenando dentro di me. Un singhiozzo mi salì dalla gola e mi ritrovai a piangere disperata. Il piccolo aveva sentito e anche lui cominciò a strillare. Anna non sapeva chi assistere per primo. Per fortuna in quel momento stava rientrando Stefano che ci aveva guardato preoccupatissimo. «Che diavolo sta succedendo?» aveva urlato e poi era corso a prendere Giulio in braccio cercando di calmarlo.
Anna aveva ripreso il controllo. «Credo che il piccolo abbia fame, sono più di tre ore che non mangia. Puoi preparargli tu il biberon?» aveva chiesto a Stefano. Poco dopo, appena infilato il biberon nella bocca del piccolo, solo i miei singhiozzi soffocati rompevano il silenzio.
«Che cosa sta succedendo?» aveva chiesto di nuovo Stefano.
Anna stava per laurearsi in psicologia clinica e mi guardava con aria significativa: «È normale che dopo una gravidanza e un parto subentrino sentimenti a volte contraddittori, senza contare la stanchezza per le notti perse,  però credo che nel tuo caso ci sia altro…».
Sapevo che quello che provavo era tutto sbagliato e stranamente non avevo problemi a parlarne con Anna. Ma dire a Stefano quello che sentivo era davvero difficile: avevo paura di deluderlo e ferirlo e lui non lo meritava. Presi quel poco di coraggio che mi rimaneva e con voce tremante cominciai a parlare. «Amo moltissimo il nostro bambino credimi. Però lui mi ha tolto così tanto che a volte penso di odiarlo. E questo mi fa star male da morire. Forse non ero pronta, o forse sono solo una pessima madre. L’unica cosa che so è che non voglio più stare così».
Stefano, che aveva tenuto gli occhi bassi per tutto il tempo, alzò lo sguardo e mi fissò. Due lacrime scorrevano sulle sue guance. «Non preoccupati, non sei sbagliata. È solo un momento difficile e noi lo affronteremo insieme».

E così fu. Dal quel giorno cominciai il mio percorso contro la depressione post-partum. Un male subdolo e oscuro che trasforma l’amore più grande, quello di una madre per il proprio figlio, in un dolore inutile e terribile che avvelena quelli che dovrebbero essere i momenti più belli della vita di una donna. Una sofferenza di cui non ci si deve vergognare, perché il primo passo da fare per sconfiggerla è proprio guardarla in faccia. E dopo alcuni mesi, un leggero antidepressivo e un gruppo di auto-aiuto, finalmente scoprii che essere madre è davvero, e senza nessun dubbio, la gioia più grande.

Articolo pubblicato su Confidenze n. 45/2015.

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