La zucca blu

Cuore
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Vi riproponiamo nel blog la storia vera più apprezzata del n. 43 

 

Ad Halloween un gruppo di mamme aveva organizzato per i bimbi un giro con i cestini dei dolcetti. Avrei voluto che anche mio figlio partecipasse, ma sapevo che per lui non era facile. Fu mio marito ad avere un’idea

STORIA VERA DI GINEVRA D. RACCOLTA DA ANNA BALTIA DELFINI

 

Quando è nato Stefano io e il mio compagno eravamo già piuttosto in là con l’età. Io avevo 40 anni e lui quasi 50. Convivevamo da oltre dieci anni e di comune accordo avevamo deciso di non avere figli. Eravamo entrambi professionisti molto impegnati, non di rado fuori per viaggi di lavoro e ci sembrava giusto così. Avevamo scelto la carriera e pensavamo che crescere dei figli da cui poi dover stare lontani non fosse la cosa migliore. Poi però era arrivata la mia gravidanza. Inaspettata. Era stata una notizia abbastanza scioccante, pian piano ci eravamo abituati all’idea e anzi più che fare amicizia col pensiero di diventare genitori, alla fine ne eravamo stati travolti, ma in senso positivo. Tutte quelle reticenze che avevamo provato in passato erano scomparse, per far spazio alla gioia di un figlio. La nascita di Stefano è stata per noi un regalo immenso, avevamo abbandonato presto tutte le nostre vecchie abitudini di “single accoppiati” come ogni tanto ci apostrofava un amico e avevamo iniziato la nostra avventura famigliare. Crescere Stefano non era stato facile, soprattutto perché era arrivato in un momento della nostra vita in cui non eravamo più dei ragazzini e le energie non erano più quelle di un tempo. Nonostante tutto però non ci era mai pesato. Eravamo felici, forse come mai lo eravamo stati prima, la genitorialità ci aveva spalancato le porte di un mondo complesso sì, ma anche molto affascinante. Ci piaceva passare il tempo con nostro figlio, ci piaceva creare insieme dei ricordi, anche se questo aveva significato mettere al secondo posto il lavoro, una cosa che per me e il mio compagno Claudio era stata molto più facile del previ- sto, forse perché a conti fatti le soddisfazioni che avevamo avuto in campo lavorativo non ci sembravano nemmeno lontanamente paragonabili a quelle dell’essere genitore, una sfida che avevamo accolto col nostro solito spirito attivo.

I primi problemi veri erano iniziati verso i tre anni di Stefano. C’era già stato qualche segnale, ma non avevo voluto dargli peso. Quando poi però era arrivato il momento dell’inserimento in asilo, tutto era cambiato. Stefano aveva iniziato a manifestare chiaramente i primi sintomi di autismo. La sua interazione con gli altri bambini e le maestre ne era risultata fortemente compromessa, inoltre la ben nota attitudine dei bambini per la ripetizione, nel caso di Stefano era una vera e propria ossessione: cambiare anche solo una piccola cosa delle sue routine quotidiane lo metteva in uno stato di profonda agitazione. Erano cominciati così i nostri pellegrinaggi da vari medici, sotto l’indicazione di un’insegnante che per prima aveva riconosciuto in Stefano qualcosa di diverso. Io e Claudio avevamo parlato con talmente tanti specialisti da poter quasi scrivere libri sull’argomento, continuavamo a chiedere pareri, forse nella speranza di trovare un dottore che smentisse tutti gli altri. Stefano aveva fatto un mucchio di test e anche noi ci eravamo sottoposti a un iter pesantissimo, nella speranza che il nostro bambino non fosse davvero autistico. Alla fine avevamo dovuto arrenderci. Per me era stato particolarmente doloroso, soprattutto perché Stefano faticava a mostrare sentimenti di affetto nei nostri confronti che pure, ci rassicuravano i medici, provava. Ma come facevo io da madre ad accettare che rifiutasse i miei abbracci? O che per riuscire anche solo a sfiorarlo, bisognava prima capire i suoi meccanismi e cercare in ogni modo di non procurargli fastidio?

Era stato un incubo. Claudio per fortuna era rimasto sempre al mio fianco, la malattia di Stefano aveva in qualche modo cementato ancora di più la nostra unione e l’amore che provavamo l’un l’altro e verso nostro figlio si era addirittura amplificato. Anche il dolore però. Spesso mi lasciavo abbattere dalla disperazione, stringendomi in un pianto silenzioso sul letto che solo l’abbraccio di Claudio riusciva a calmare. I medici mi dicevano che lo stato interiore di mio figlio poteva essere caratterizzato da un’angoscia costante, senza alcuna logica, ma preponderante al punto da far temere da chi ne è affetto di cadere in pezzi da un momento all’altro. Anche io però cadevo a pezzi.

«Dobbiamo fare qualcosa Ginevra».
Claudio mi aveva preso la mano e guardato dritta negli occhi. Non doveva più essere il tempo delle lacrime.
«Cosa possiamo fare?».
«Crescere insieme a Stefano».
Quelle poche parole avevano avuto il coraggio di farmi rialzare, di ricominciare daccapo. In un certo senso era come diventare genitore una seconda volta. Avevamo cominciato così il nostro percorso. Ci seguiva Roberta, una brava psicologa specializzata in disturbi dello spettro dell’autismo. La nostra era in un certo senso una terapia “di gruppo”, una terapia familiare in cui tutti e tre imparavamo qualcosa dell’altro e della relazione fra noi. Non era stato facilissimo. Ci era voluto del tempo e anche parecchia fatica perché un bambino autistico è un universo da scoprire e imparare a conoscere con cautela. Per i successivi tre anni era stato un continuo allenamento, ma alla fine avevamo preso i nostri ritmi, modulandoli in qualche modo sulle esigenze di Stefano, perché quella che ci sembrava magari una piccolezza come per esempio spostare una sedia, nel confuso e ansiogeno mondo di nostro figlio poteva rappresentare un’alterazione dolorosa della sua realtà. Così avevamo meccanicizzato ogni sua routine, dalla sveglia mattutina ai pasti, passando per il tempo dedicato ai giochi, sempre gli stessi e nel contempo cercando pian piano di insegnare anche a Stefano come manifestare i suoi sentimenti, come renderci in qualche modo partecipi del suo mondo “pauroso” come lo descriveva lui appena fu in grado di parlare. Un mondo pauroso anche per noi quello dell’autismo. Ma non abbastanza da spaventarci, io e Claudio ci eravamo tenuti la mano ed eravamo andati avanti. I piccoli successi quotidiani ci sembravano enormi passi fatti per scalare quell’enorme montagna di cose inespresse che sapevamo celasse il cuore di nostro figlio. Per tre anni ci eravamo allenati e avevamo preso il nostro “ritmo”, ma proprio quando credevamo di padroneggiare il meccanismo, era arrivato un altro ostacolo.

«Sarà dura per voi devo avvisarvi» aveva detto Roberta in una delle sedute in cui ci aveva illustrato il nuovo percorso da seguire in vista di un nuovo e importante evento per nostro figlio. A settembre Stefano avrebbe iniziato la prima elementare. Naturalmente sarebbe stato seguito con il sostegno, ma l’ingresso in un ambiente nuovo ed estraneo certamente lo avrebbe destabilizzato. Ci tenevo che frequentasse la scuola insieme agli altri bambini, volevo che avesse una vita il più normale possibile. Ma Roberta era già pronta a snocciolare tutta una serie di imprevisti a cui non avrei pensato. «Dovrete fare i conti con il pregiudizio e il distacco. Non solo in situazioni strettamente scolastiche». «Dei bambini?».

«Più che dei bambini dei genitori».
«Che vuoi dire?».
«Immagina una festa di compleanno. Stefano non potrebbe viverla come un qualunque altro bambino, potrebbe essere necessaria la tua presenza e potrebbe anche significare che Stefano passi tutto il tempo in silenzio e lontano dai compagni. Non tutti i genitori sono disponibili ecco. Questo devi saperlo».
Quell’affermazione aveva avuto il potere di gettar- mi addosso un profondo sconforto, ma ancora una volta Claudio mi aveva stretto la mano: «Lo affronteremo insieme».

Ci eravamo così messi alla ricerca della struttura scolastica giusta, Roberta avrebbe continuato a seguirci. Anche stavolta dovemmo affrontare tutta una serie di ostacoli e come per i medici che dovevano diagnosticare l’autismo di Stefano, anche per le scuole eravamo andati incontro a tutto un vasto e variegato ventaglio di situazioni. Le scuole per la maggior parte non erano pronte ad affrontare l’inserimento di un bambino autistico. Non si trattava soltanto del personale, molto aveva anche a che fare con la struttura stessa dell’edificio. Ero sicura che percorrendo certi corridoi pieni di luce o troppo labirintici, Stefano avrebbe avuto una delle sue reazioni peggiori. Parte delle mie preoccupazioni erano reali, ma altre erano solo frutto di una madre apprensiva, come qualunque altra.

Roberta insisteva nel dire che avremmo dovuto trovare il modo di rendere l’ambiente scolastico confortevole per Stefano e in questo la nostra ricerca era stata capillare, anche a costo di doverci spostare di parecchi chilometri. Per fortuna tanta dedizione alla fine era stata premiata e avevamo incontrato la grande umanità e professionalità di una preside, Elide, che era pronta a intraprendere con noi quello strano e ancora una volta pauroso viaggio formativo. Un viaggio che, come aveva previsto Roberta non sarebbe stato facile.

«I genitori del compagno di banco di Stefano mi hanno chiesto di cambiargli posto».
Me lo aveva confessato con molta amarezza la preside. La scuola era iniziata da poco più di un mese e non senza difficoltà per Stefano, che aveva dovuto imparare una nuova routine, una routine che comprendeva naturalmente anche il compagno di banco di mio figlio: Giorgio. Le interazioni fra loro sapevo non fossero poi così tante, ma speravo che con il tempo i bambini avrebbero iniziato pian piano a trovare punti d’incontro in quel modo speciale che solo i bambini sanno avere.

Il problema erano i genitori. In fondo capivo anche la loro richiesta, non era facile per nessuno, tuttavia non potevo fare a meno di provare tristezza. Elide aveva provato a trovare una mediazione, ma dal canto mio e del mio compagno, non volevamo mettere in difficoltà i genitori di Giorgio. Di comune accordo decidemmo che vicino a Stefano sarebbe rimasta solo l’insegnante di sostegno. «Affronteremo la cosa come abbiamo fatto altre volte». Avevo assicurato a Elide, che dal canto suo mi aveva preso le mani per rassicurarmi.

«Non siete soli».
Le sue parole e il suo sorriso mi avevano ridato forza. Io e Claudio ci eravamo subito messi in mo- to, non ci saremmo fatti abbattere, è sempre stata questa la nostra forza. Stefano aveva ripreso con fatica la scuola, senza il suo compagno di banco e io e Claudio cercavamo di essere il più presenti possibile, soprattutto durante le occasioni in cui i genitori dei bambini potevano incontrarsi, era un modo per farci conoscere e far conoscere la nostra famiglia.

Nel frattempo era trascorso un altro mese. La scuola di Stefano era vicinissima a una piccola università americana dove studiavano soprattutto figli di militari, c’era infatti non molto distante anche una base statunitense e il cortiletto antistante l’università era stato decorato con le tipiche zucche intagliate di Halloween. Ormai quella festività seppur non autoctona, veniva festeggiata anche nel quartiere e i bambini si mascheravano andando in giro a chiedere dolcetti accompagnati dai genitori.
Anche la scuola di Stefano era stata decorata con i motivi di Halloween ed Elide mi aveva informata che un gruppo di mamme aveva organizzato un piccolo giro nel quartiere con i cestini a forma di zucca per i bambini. Naturalmente non mi avevano fatto sapere nulla, ma volli credere che fosse una dimenticanza o semplicemente un non detto nato dalla difficoltà di proporre un’attività sociale alla madre di un bambino autistico. Un imbarazzo che dopotutto potevo comprendere. Ne avevo parlato con Claudio e come sempre aveva saputo trovare la strada: provare a portare Stefano a quel giro, magari con un piccolo mantello blu, data la sua passione per i supereroi. Ma non solo, anche il suo cestino a forma di zucca doveva essere blu.
«Una zucca blu?».

Avevo guardato un po’ confusa Claudio a quella proposta.
Ma lui aveva sempre il suo asso nella manica. Un suo collega gli aveva raccontato dell’iniziativa di alcune mamme americane durante la festività di Halloween di far utilizzare ai loro bambini delle zucche blu. La zucca blu indicava la presenza di un bambino o una bambina autistica e aiutava gli altri genitori a capire che l’approccio al bambino poteva dare risultati diversi da quelli che ci si poteva aspettare comunemente. Era un modo per conoscersi in un certo senso, perché spesso l’autismo genera paura e distacco. Mi era sembrata una splendida idea e ne avevo parlato con Elide e Roberta.
La proposta di far unire Stefano e la sua zucca blu al giro serale per richiedere i dolcetti mi sembrava ottima, ma non volevo che sembrasse una sorta di etichettatura di diversità, avevo quindi proposto a Elide di chiedere a tutte le mamme che partecipavano al giro, di far dipingere il cestino-zucca dei loro figli di un colore a scelta, per esaltare l’unicità di ciascun bambino. Non aderirono tutte naturalmente, ma una buona parte sì e diverse di loro si erano anche scusate con me per non avermi coinvolta inizialmente.

A Stefano piacque molto l’idea del mantello e della zucca blu e per quanto circoscritto al suo modo di esternare le emozioni, durante la serata di Halloween in giro per il quartiere a chiedere dolcetti, a me e Claudio era parso sereno e affatto disorientato da quella nuova realtà.

Ma la sorpresa più bella sarebbe arrivata alla porta di casa proprio del piccolo Giorgio, l’ex compagno di classe di Stefano.
Il bambino non aveva partecipato al piccolo tour serale, ma Stefano aveva riconosciuto la casa, molto vicina alla scuola e vedendola tutti i giorni nel tragitto l’aveva registrata. Aveva voluto fermarsi a tutti i costi. Ero scettica all’idea di bussare proprio a quella porta di quella famiglia che aveva voluto separare il loro figlio dal nostro, ma con Claudio eravamo decisi a supportare Stefano sempre e comunque.

Ci aveva aperto la mamma di Giorgio, anche un po’ imbarazzata, non partecipavano a quella festa per- ché la trovavano inadatta alla cultura italiana. Mentre io e lei scambiavamo poche parole sull’uscio di casa, fra le gambe di lei era sgattaiolato proprio il piccolo Giorgio. Aveva subito salutato Stefano che però non aveva risposto al suo saluto. Avevo cercato di spiegare il motivo alla madre di Giorgio, ma Stefano ci aveva sorpreso tutti, porgendo la sua zucca blu a Giorgio. Pensavamo volesse dei dolcetti e mi ero subita premunita di scuse verso la madre, ma poi Stefano aveva guardato il compagno di classe regalandogli uno dei suoi rarissimi sorrisi. «Te lo regalo» aveva detto scappando via dalla porta diretto verso le braccia di suo padre Claudio. Il gesto ci aveva stupefatto e commosso, anche la mamma di Giorgio ne era rimasta molto emozionata. Grazie a quella piccola zucca blu in un certo senso tutto era cambiato o, secondo la prospettiva di Stefano, tornato a posto. Perché forse mio figlio credeva di aver fatto qualcosa di sbagliato verso Giorgio che non era più seduto accanto a lui e regalargli il suo cestino di dolci equivaleva a chiedergli scusa, anche se lui non sapeva per cosa. Un passo enorme per un bambino autistico.

La mamma di Giorgio l’aveva capito infatti e da quel giorno suo figlio era tornato il vicino di banco di Stefano. ●

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