L’amico Fritz

Cuore
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Tra noi è stato amore a prima vista. Primo di una cucciolata di meticci, avevi il dono del sorriso, era il tuo modo per dirmi che mi volevi bene. Senza dubbio, dietro gli occhi chiusi, ne hai fatto uno per me, l’ultima volta 

Storia vera di Elena Macchi

 

A te, dedico questa storia, in ricordo della nostra sincera amicizia e di tutta quell’allegria che mi hai gratuitamente regalato, una preziosità che porterò con me, per sempre.


Sei arrivato in un giorno umido di pioggia. Era fine estate. La tua casa ancora in fase di costruzione. Impaurito e tremante, stavi accucciato in una scatola di cartone, dov’era stata ricavata una fessura stretta e lunga. Da lì sbucavano i tuoi vispi occhietti color dell’ambra dorata, come quando il sole la trafigge. Mio padre posò la scatola sul prato, e ti liberò. Eccoti smarrito tra le mie braccia. Eri nato a casa di un suo amico, circa due mesi prima, da una cucciolata di quattro meticci. Ora eri nostro. Assomigliavi a una piccola pallina, coperta di pelo, folto e morbido, marrone ramato con sfumature rossicce, ricordavi le castagne mature. Fu amore a prima vista. Decidemmo per te il nome Fritz, ispirandoci alla famosa opera di Mascagni, L’amico Fritz. Onorasti il nome e ti rivelasti così con tutti. Avresti dovuto fare la guardia, ma da subito dimostrasti di non averne proprio la stoffa. Giocherellone, confidenziale con gli operai, cui spesso mordicchiavi le scarpe, e facevi a brandelli le calze di ricambio che lasciavano in cantiere. Un giorno scavasti con le piccole ma robuste zampette una buca abbastanza profonda, alla base di un cumulo di terra, facendola franare, riuscendo a seppellirci sotto un metro, e alcune matite da muratore. Poi stanco delle tue monellerie, ti avviavi verso il porticato dove ti addormentavi beatamente, cullato dal cestino foderato di una stoffa morbida che la mamma ti aveva preparato, assumendo l’immagine dell’innocenza più pura. Persino il gatto dei vicini era tuo amico, tanto da avere la libertà di attraversare, con la coda librata nell’aria, il cantiere, e di arrivare indisturbato fino alla tua ciotola di cibo che insieme dividevate allegramente. 

Avevi un gran dono, quello del sorriso. Lo usavi spesso con me, quando desideravi fare una passeggiata, oppure mangiare qualche leccornìa di cui eri golosissimo. Quel giorno, durante il temporale, mentre la pioggia battente accompagnata da tuoni e fulmini rinfrescava l’aria, mi ero rifugiata nell’unico angolo riparato del cortile, in compagnia di una fetta di pane spalmato con la marmellata. Subito mi raggiungesti guaendo, per paura del temporale. Quando però annusasti l’odore dolce della marmellata, dimentico della paura, alzandoti sulle zampe posteriori ti avvicinasti alla fetta leccando tutta la marmellata fino a fare rimanere solo il pane. La tua simpatia perdonava tutto. Mi sedetti a terra, accarezzandoti la testolina morbida e presi a raccontarti i miei guai. Mi puntasti addosso i tuoi occhi di ambra. Schiudesti la bocca, facendogli prendere la piega del sorriso, con la lingua che penzolava di lato. Quel sorriso era il tuo modo di farmi capire che mi stavi ascoltando e che anche tu mi volevi bene. Quando non potevo venire a trovarti, chiedevo a mio padre di te. Le risposte erano sempre divertenti: «Ha morsicato il progetto della scala appena fatto dal geometra». Oppure: «Ha scavalcato la recinzione andando dal vicino a mangiare i pomodori». Ancora: «Ha corso a perdifiato quasi tutto il pomeriggio rincorrendo un’ape, che poi gli si è infilata in bocca facendolo guaire». Una sera mio padre rientrò a casa più tardi del solito, visibilmente preoccupato. Evitò di entrare subito nel soggiorno, dove sapeva di essere sottoposto al mio solito rituale di domande curiose. Si diresse invece verso la cucina. Parlava a bassa voce con mia madre: «Fritz è malato, non ha giocato, non ha mangiato nulla. Il capo cantiere mi ha riferito che nonostante sia arrivato il gatto, non è uscito dalla sua cuccia nemmeno per un minuto. Stasera l’ho trovato ancora lì, raggomitolato nella coperta, con gli occhi tristi che sembravano diventati ambra liquida».

«Non aspettiamo oltre, domani ci rivolgeremo al veterinario» rispose mia madre. Inutile raccontarti il mio stato d’animo, avrei voluto volare da te, ma era notte. Meglio così! Pensai che presto sarebbe arrivato domani. Con il tuo cesto di vimini tra le braccia e il cuore in gola, io e mio padre ci presentammo nello studio del veterinario. Un affabile vecchietto, minuto di corporatura, ma con mani grandi e sicure, e due soffici, candidi baffoni rivoltati all’insù come ciuffi di panna montata su una torta. La visita fu accurata, mentre tu, insolitamente passivo, non opponevi alcuna resistenza. Avevo le lacrime agli occhi, quando il dottore, con un gesto di palese desolazione dichiarò: «È stato colpito da una forma virale, aggressiva, che si manifesta dai sei mesi all’anno di vita. Senza troppi pessimismi, ho visto guarire pochi cuccioli, solo quelli molto robusti di costituzione. Proviamo con alcune iniezioni antibiotiche, sperando nell’efficacia. Non chiederà cibo, ma voi continuate a proporlo, soprattutto carne». 

Ti riportammo a casa. Furono giorni densi di preoccupazione. Senza forze, dormivi per ore nella cesta accanto al calorifero, solo qualche leccatina all’acqua nella ciotola.  Mi mancavano i tuoi sorrisi, le tue monellerie, i tuoi occhietti curiosi e aperti sul mondo. 

Tornavo da scuola con il cuore pesante più dello zaino e mi precipitavo alla tua cesta, certa che tu mi stessi ad aspettare. «Mamma, Fritz non è nella cesta! Dove l’hai portato?». La risposta a quell’interrogativo arrivò immediata dal fondo del corridoio, quando fui travolta da una furia che conoscevo bene, mentre sentivo il tuo musetto umido e imbrattato di briciole alla marmellata sulle mie braccia, unite a quelle di mia madre aggiuntasi al nostro abbraccio. Ti ricordi? Correva l’anno della stratosferica nevicata, 1985! Ci trasferimmo tutti nella nuova casa, al limite del bosco. Il ricordo è una favola, raccolta in un unico grande fiocco bianco, i tuoi acrobatici salti tra i cespugli candidi e i ghiaccioli di cristallo riflessi su quel mondo d’incanto. Quanti anni felici seguirono insieme a te. Sorprendevi tutti, quando ti intrufolavi nel pollaio dove tre galline, tue amiche, avevano deposto le uova. Nessuno voleva credere ai propri occhi quando ti vedeva prenderle delicatamente facendole rotolare fino in bocca, e miracolosamente senza mai danneggiarne nemmeno una, posarle sul prato. La pallina morbida di pelo si era trasformata, eccoti un bell’esemplare di giovane cane, nella stagione degli amori. Con gran foga, scavavi buche nel terreno sotto la recinzione poi, schiacciandoti come una polpetta correvi via, verso la libertà. Fu durante una di quelle fughe che ti persi. Volantinai il paese con la tua foto. Mi dissero che ti avevano visto legato a una catena, in una casa colonica, nelle campagne. Inforcai la bicicletta, che amara sorpresa quando scoprii che la recinzione della casa era stata coperta con un oscurante. Tornai più volte alla casa, ascoltandone attentamente i rumori. Erano tuoi quei latrati? Eri tu a guardia degli starnazzi del cortile? Come avrei potuto ritrovarti? Tanti interrogativi, poca speranza. Il tramonto si accendeva contrastando i colori della brughiera autunnale. Affacciata alla finestra intravvedevo una macchia scura e indistinta che si avvicinava a casa. Erano trascorsi quasi due anni, e tu eri tornato da me! Piangendo ti riabbracciai e strinsi il poco che era rimasto di te. Il pelo sfoltito, trascurato. Tu, senza più sorriso. All’erta sulla difensiva, solo con me meno diffidente. Ero pronta a darti un’overdose d’amore, a guarirti facendoti sorridere ancora. Senza dubbio dietro ai tuoi occhi chiusi lo facesti per me, l’ultima volta, lasciandomi impigliato al cuore il tuo sorriso, il più bel ricordo che ho di te

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