Madre senza culla

Cuore
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Sono qui, sdraiata sul divano, mi perdo sulle montagne russe dei miei pensieri che mi portano in un mondo fantastico, dove cuore e ragione disegnano un futuro fatto di vagiti e risolini. In quel mondo tutto mio, sento che nostro figlio finalmente potrà arrivare

STORIA VERA DI ANNA D. RACCOLTA DA MARCO ANGILLETTI

 

Mi sposto da una stanza all’altra in cerca di qualcosa da fare: una maglietta da riporre nell’armadio, un batuffolo di polvere sfuggito alle mie smanie di pulizia, un quadro da raddrizzare.

È sabato. Il sole bacia l’asfalto più del solito e dal balcone di casa lancio un’occhiata poco appassionata agli alberi intorno. Nessun movimento, neppure una foglia disposta ad accennare un passo di danza. Sarà un segno tutta questa staticità?

Volto le spalle al mondo fuori e ritorno sul divano, tenendo il cellulare ben stretto tra le mani. Più lo fisso, più non squilla. Mi sdraio, almeno per un attimo riesco a smorzare il respiro ansioso, segno inevitabile dell’attesa.

«Riposo assoluto, mi raccomando». Le parole della dottoressa si inabissano nel cervello come piovre da cui realizzo di non riuscire a scappare. Poche settimane fa ho fatto l’ennesimo tentativo per potermi cucire addosso in maniera indelebile quell’appellativo che io sento forte già dentro, ma che all’esterno non trova ancora corrispondenza. Madre. Le cinque lettere più amabili di sempre.

I risultati dovrebbero arrivare proprio oggi. Guardo la foto accanto alla televisione, io e Marco con gli scarponi da trekking sul nostro sentiero preferito, spensierati e abbracciati. Sembra una vita fa. Una lacrima scivola giù verso le labbra e la sua impronta salata mi fa tuffare in un mare agitato dove ogni onda, anche la più impercettibile, ha l’effetto devastante di uno tzunami.

La maternità non è un semplice dono della natura, un moltiplicatore di sentimenti, un desiderio di continuità. A volte, purtroppo, è meramente una questione di fortuna.

Ogni giorno la televisione passa in rassegna notizie di genitori che si privano dei loro figli fino a ucciderli, soltanto per invelenire il partner o per riprendersi in mano la loro vita da single. Certe vicende mi piombano addosso, sono scariche di mitragliatrice, perché io bambini non riesco ad averne. Insieme all’uomo che amo continuo a piantare semi con il desiderio che un fiore bellissimo possa sbocciare e invece, puntualmente, mi ritrovo in mezzo a zolle di terra arida. Quando avevamo deciso che era arrivata l’ora di rallegrare la nostra casa con le smorfie giocose di un bambino, facevamo tutto in maniera naturale e spontanea, senza prestare troppa attenzione ai giorni fertili. Purtroppo diversi mesi dopo mi sono resa conto che neppure fare l’amore nei periodi migliori serviva e, impensierita, mi sono rivolta a una specialista.
«È lei, signorina, ad avere dei problemi» riferì la ginecologa quel giorno, con il capo chino e una bella stilografica tra le mani, mentre annotava un paio di frasi sulle analisi appena stampate. Si vedeva dalla sua scarsa partecipazione emotiva quanto fosse abituata a dare notizie di quel tipo.

Rimasi a bocca aperta a fissarla, quasi volessi assicurarmi di avere capito male. Ai miei occhi appariva come una chiaroveggente, una di quelle che ti accoglie al suo tavolo, ti legge le carte, ti avverte che succederà qualcosa di brutto a breve e tu te ne stai lì, imbambolata, chiedendoti se sia giusto crederle oppure no.

La dottoressa non fece neppure in tempo ad accogliere la mia incredulità che deviò il discorso su spiegazioni dettagliate, con termini medici ricercati, fino a chiudere le sue riflessioni con una nota di cauto ottimismo che io interpretai come la classica manovra di chi vuole indorare la pillola.
«L’unica strada da percorrere è quella della procreazione assistita, se lei è d’accordo» e aggiunse un sorriso mezzo artefatto.

Aggrappata al braccio sinistro di Marco, uscii dallo studio in una sorta di stato confusionale, sebbene iniziai a elaborare la diagnosi solo quando rientrai a casa. Le mie mancate gravidanze avevano un nome ben preciso: ho scoperto di soffrire di menopausa precoce. C’è una frase pronunciata dalla ginecologa che vale più di qualunque delucidazione medica. «Lei ha 38 anni, ma le sue ovaie ne hanno 45».
Certe notizie ti devastano, per me è stato come affrontare l’ennesimo lutto. Ci resti malissimo, ti chiedi se hai sbagliato qualcosa negli anni della giovinezza, se hai
avuto trascuratezze o situazioni particolari che possano avere inciso sulla sensibilità del tuo corpo. Non credo sia il mio caso, la mia è sempre stata una vita regolare, senza alcun eccesso.

Al di là di ogni nesso o causa, ti basta una sola verità per sentirti inutile come donna, annichilita: non hai semplicemente un problema, ma quel problema sei proprio tu! Il tuo corpo, la tua conformazione, una certa disfunzione dentro di te. È una sentenza che ogni santissimo giorno senti ripetere in un’aula vuota, dove tu sei l’imputata e la vita veste i panni del giudice. Ne vieni fuori colpevole: la legge più naturale di questo mondo tu non sei in grado di rispettarla né di farla funzionare. E le palpitazioni aumentano, perché temi che quella condanna sia un ergastolo.

Ho la fortuna di avere accanto un uomo eccezionale che mi sostiene in ogni battito di ciglia, nonostante sia convinta che la sua comprensione possa arrivare fino a un certo punto, poiché lo strazio di una donna che non riesce a essere madre non potrà mai essere declinato al maschile fino in fondo. L’uomo può soffrire insieme a te e anche tanto, può sperimentare il senso di smarrimento e di impotenza. Il grembo che resta vuoto, però, è il tuo e di nessun altro al mondo.
Dopo un primo momento di disperazione in cui avrei voluto mollare tutto, ho deciso di tentare la strada della fecondazione artificiale. Ci siamo rivolti al centro di procreazione medicalmente assistita della nostra città, dove siamo stati accolti e seguiti dalla responsabile della struttura, una dottoressa tra le migliori del settore, almeno così dicevano in giro le coppie che avevano avuto a che fare con lei. Prelievi, analisi su analisi, consulti anche psicologici, ecografie. È un percorso estenuante e delicato. Sai bene che stai lottando contro qualcosa che forse non riuscirai mai a sconfiggere.
E avrei dovuto capirlo subito che la fortuna non mi avrebbe favorita, già da come tutto era iniziato. Io avevo un’esenzione medica per i problemi di salute e avrei potuto accedere al percorso tramite l’ospedale pubblico. La dottoressa invece non era per niente d’accordo. Considerati i miei parametri e le valutazioni del caso, mi consigliò di recarmi fuori regione, in una struttura privata specializzata, perché secondo lei la procedura in ospedale, poco all’avanguardia, sarebbe stata di sicuro un fallimento.

«Siamo disposti a tutto. Se è preferibile andare in un’altra regione, seguiremo le sue indicazioni», Marco mi strinse la mano e rispose ancora prima di chiedermi cosa ne pensassi. L’amore sa parlare una lingua sola con due bocche diverse. Iniziò l’iter: piano terapeutico per il contrasto all’infertilità, varie trasferte per controlli periodici nella clinica privata, ore di attesa, pasti consumati a parlare quasi sempre dello stesso argomento, lunghe passeggiate tra un consulto e l’altro.

Bastò davvero poco per rendersi conto di quanto fosse impegnativo sia fisicamente che economicamente, eppure non avevamo la benché minima intenzione di tornare sui nostri passi. Puoi avere le tasche piene di mosche, ma venderesti anche quelle per il desiderio di essere genitore.
C’era qualcosa, però, che non mi convinceva; il sesto senso annebbiava la mia fiducia nei confronti di quella clinica privata. Al di là della gentilezza e dell’apparente professionalità, notavo da parte di tutti un palpabile senso di distacco e un interesse solo per l’aspetto prettamente sanitario. Delle emozioni non importava a nessuno. Era una sensazione strana, come se una voce esterna mi dicesse di non concedermi del tutto.

Poco tempo dopo, infatti, mi arrivarono delle voci sul fatto che la ginecologa che seguiva la mia situazione e altri suoi colleghi non fossero del tutto limpidi nel loro operato. Si erano verificati dei casi di falsi piani terapeutici e varie forzature per indirizzare molte pazienti verso la famosa clinica fuori regione a cui loro, a quanto pareva, erano legati da interessi economici. Ovviamente, la stessa clinica in cui ero stata mandata io. Stentavo a crederci. Davvero esistono persone disposte a speculare su circostanze così delicate? Non si rendono conto che di mezzo c’è la manina di un possibile bambino che aspetta di essere messo al mondo? La rabbia per questa faccenda ancora oggi mi consuma e sono sicura che, se dovessi mai incontrare la dottoressa di persona, mi scaglierei contro di lei a urlarle tutto il malessere che mi ha procurato.

Io e Marco siamo giovani perbene, siamo gente umile che fa sacrifici da mattina a sera, siamo una coppia che vuole scalare l’Everest per piantare una bandiera sulla vetta dell’amore e questa vicenda ci ha fatto scivolare giù nel dirupo, con violenza.

Abbiamo provato a voltare pagina e a mettere da parte i sentimenti negativi, tanto non ci avrebbero fatto bene. Ci siamo rivolti ad altri specialisti, questa volta senza allontanarci dalla nostra città. Anche in questo caso, però, i tentativi non hanno avuto esito positivo.

Ormai sono passati ben tre anni dal maledetto giorno della diagnosi. Mi guardo allo specchio e ritrovo una donna diversa, una sagoma consumata che non mi appartiene. Sono costretta a fare analisi ogni tre giorni, il cortisone ha deformato i miei tratti, l’umore è un dondolo che non trova ostacoli, il viso è cupo e non sorrido più. Se mi sforzo di esibire un sorriso è soltanto per non appesantire l’umore delle persone a me vicine. Quelle rare volte che sono in loro compagnia faccio finta di niente. Continuo a rifiutare inviti, perché che sia Covid o anche solo un banalissimo virus, non posso minimamente rischiare di ammalarmi: significherebbe perdere ancora tempo e far fallire il ciclo delle cure.

È vero, io e Marco ci siamo isolati parecchio in questi anni, sono rimasti accanto a noi soltanto i familiari e gli amici veri, quelli che comprendono i silenzi senza soffocarti di domande. Molti amici si sono persi lungo la strada, ma pazienza! Non posso starmene lì a spiegare a ognuno qual è la reale situazione, proprio io che non ho mai amato dare spiegazioni, soprattutto su questioni così intime.

Tutti però si sentono autorizzati a dire la loro. Mi rendo conto che alcuni lo facciano in maniera consolatoria o perché intendano alimentare la nostra speranza, ma sono stanca perfino della comprensione.
«Non siete gli unici. Sai a quante coppie è successo? Poi all’improvviso è arrivato un bambino dal nulla». È la frase che mi sento ripetere più spesso negli ultimi tre anni. E quando la pronunciano, io immagino che dall’esterno la gente mi veda come una povera sfigata, stretta in un angolo di marciapiede con un cappello in mano a elemosinare speranze. Sono tutti bravi a indottrinare o a minimizzare. Datemi pure dell’egoista, ma il mio dolore interiore è così rovente che della saggezza altrui non so davvero che farmene. Il problema è che gli anni continuano a passare, ho superato i 40 e non so quanto ancora il mio corpo possa essere in grado di farsi capanna di Betlemme e dare alla luce un piccolo grande miracolo.

Oggi sono particolarmente in ansia mentre attendo i risultati delle analisi: sarà l’ultimo tentativo, basta! Oltre al senso di delusione e scoraggiamento, si è aggiunto il fatto che il mio corpo in questi anni è stato sovrastimolato e reclama un po’ di quiete, anche mentale. Senza dimenticare che abbiamo esaurito tutti i nostri risparmi.

«Se dovesse andare male anche questa, io mi fermo. Perdonami, amore mio, ma fisicamente non ce la faccio più». Con il cuore in gola e le lacrime trattenute, ho parlato a Marco in sincerità.

Mi ha abbracciata, con la sua disarmante tenerezza. «Facciamo ciò che ritieni più opportuno, insieme come sempre».
Molte volte mi chiedo che fine avrei fatto se non avessi avuto una spalla così complice e mansueta come lui. Ho accanto un grande uomo, lo sapevo già prima.

È facile vedere la bellezza di un rapporto di coppia nei momenti più spensierati, come le nostre avventure di trekking, i nostri viaggi, i progetti a quattro mani. Nel dolore, però, sei in grado di dare un peso diverso alle cose e alle persone. Rivaluti tutto, oltre a te stessa. Certe esperienze stravolgono anche la vita di coppia, fino a colpirne la straordinarietà e la spensieratezza che ti sei guadagnata nel tempo. Chi segue dei percorsi di cura simili al mio affronta numerosi momenti di crisi, anche se a causarli sono cose banali o per le quali ci sarebbe da riderci sopra. Li avrebbero chiamati arcobaleni ormonali, anziché tempeste, se fossero stati pacifici nelle loro incursioni.

Le cure ti rendono irascibile, inquieta, insopportabile. Nonostante ciò, Marco c’è sempre, finanche in quei momenti in cui io stessa arrivo a odiarmi. Nelle sue attenzioni e soprattutto nel suo dolce lottare ho compreso quanto amore mi sia stato donato dalla vita grazie alla sua presenza. Lui resiste con me, per noi, per quel sogno che meritiamo.

Se anche quest’ultimo tentativo dovesse riservare brutte sorprese, resterebbe solo da prendere in considerazione l’adozione, con tutte le perplessità del caso considerata la nostra età e le lungaggini burocratiche rispetto alle adozioni. Ne abbiamo parlato, certo, e per entrambi sarebbe un atto di amore davvero grande. Allo stesso tempo non vogliamo che sia un ripiego.
Per ora non voglio pensarci! Tanto fra un’ora al massimo, forse anche meno, squillerà il telefono.

Leggerò l’email con i risultati e capirò cosa ne sarà della nostra famiglia.
Per ora resto qui sdraiata sul divano, sulle montagne russe dei miei pensieri, quelle che mi conducono in un mondo fantastico, dove cuore e ragione disegnano con i pastelli a olio un futuro fatto di vagiti e risolini, dove le ninne nanne che sento provenire da lontano mi chiamano “madre”. In quel mondo tutto mio riesco di nuovo a guardarmi allo specchio e a vedermi bellissima. Lì mio figlio, nostro figlio, esiste davvero.

Lasciatemi sognare, lasciatemi dimenticare che, per adesso, sono ancora soltanto una madre senza culla.

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