Posso venirti a prendere a scuola?

Cuore
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Vi riproponiamo sul blog una delle storie più apprezzate della settimana, dal n. 10 di Confidenze

 

Se ne stava seduta da sola, con l’aria di annoiarsi. Mi avvicinai, il cuore che batteva: era bellissima! Non so quanto tempo è passato da quel primo incontro. So che, oltre il vuoto che mi è rimasto dentro per anni, il filo che ci univa non si è mai spezzato

STORIA VERA DI MARCO F. RACCOLTA DA MAURIZIO RIBOLDI

 

Una domenica mattina mi aveva chiamato Giorgio: «Marco, oggi pomeriggio potremmo andare al circolo ufficiali a giocare a bigliardo il mio amico era figlio di un colonnello in un’altra sala c’è una festa del liceo classico: noi, ogni tanto, facciamo un salto di là e scrocchiamo tramezzini e roba da bere».

Mi era piaciuta l’idea di fare gli imbucati in una delle festine che si facevano allora, nei primi anni Settanta: luci soffuse, dischi di musica lenta e interminabili balli della mattonella durante i quali, praticamente immobili o quasi, noi ragazzi potevamo stare avvinghiati come edera alle ragazze, tentando di allungare timidamente le mani. E in quelle occasioni, a volte, nascevano storie. Così, quel pomeriggio, eravamo lì con la stecca da bigliardo in mano e la musica che proveniva da una sala vicina. Giorgio mi ha strizzato l’occhio: «Andiamo?». Una tavola ospitava tramezzini, tartine, panini, torte, vassoi ricolmi, e il mio amico si era precipitato al buffet. Io, invece, avevo intravisto, in mezzo a tanti ragazzi che ballavano, una tipa che stava seduta sola e aveva l’aria di annoiarsi. Mi ero avvicinato e il cuore mi batteva forte, ora la vedevo nitidamente, ma era bellissima! «Ti va di ballare?». Dicendolo, mi ero sentito terribilmente ridicolo. Avevo atteso la sentenza trattenendo il respiro: con tutti i ragazzi che c’erano, oltretutto suoi compagni di scuola, perché avrebbe dovuto ballare proprio con me?.

Al suo inaspettato sì, e davanti al suo sorriso, le gambe dei miei 17 anni avevano vacillato, me l’ero ritrovata tra le braccia, non mi sembrava possibile. Ci eravamo presentati da dieci secondi, ma io già sognavo.

Tra una battuta e l’altra ci eravamo raccontati. La pensavamo allo stesso modo su tante cose, i suoi lunghi capelli neri mi sfioravano le mani e io andavo fuori di testa. Dopo un paio di balli pensavo mi salutasse e tornasse a sedersi, invece mi tratteneva e a me non sembrava vero. Una capatina insieme al tavolo dei tramezzini. «Lui è Giorgio, lei Antonella».

Poi di nuovo sulla mattonella di prima a far finta di ballare e io ormai ero perso per lei, non mi sarei staccato più. Invece, a un tratto, per paura di essere considerato appiccicoso: «Ora devo andare, Antonella. Senti…», per l’emozione, le parole mi si frammentavano in gola. «Posso venire a prenderti a scuola, domani?».

Momento di suspence, non osavo guardarla negli occhi in attesa del suo prevedibile no. Invece aveva sorriso: «Volentieri, io esco all’una e un quarto».

Pazzo di gioia, incredulo.
Avevo speso la notte rincorrendo Antonella di sogno in sogno.
Il mattino dopo, in classe, le ore non passavano mai. Alla campanella di fine lezioni, ero schizzato sulla bicicletta di Giorgio attraversando a perdifiato la mezza città tra il liceo scientifico, dove stavo io, e il liceo classico. L’avevo guardata mentre scendeva lo scalone della scuola con le sue compagne e vedevo una regina scortata dalle sue damigelle.
Poi l’appuntamento per la passeggiata in riva al mare, poi i pomeriggi seduti sui barconi con un pacchetto di sigarette e il mangiadischi, e il primo bacio e quelli che erano venuti dopo, con cui raccontavamo uno all’altra la nostra felicità. Ci eravamo

innamorati. Una delle cose matte e disperate di quell’età, forse. Dopo due anni, però, i nostri “ti amo” non erano più soltanto le ingenue espressioni di due ragazzini: volevamo entrambi fortissimamente un domani, per la nostra storia.

Così, il giorno in cui mio padre mi disse che a breve ci saremmo dovuti trasferire a Milano per il suo lavoro, mi era crollato il mondo addosso. Ricordo il nostro pianto disperato, salutandoci per l’ultima volta davanti al mare, e la promessa che avremmo continuato ad amarci anche da lontano.
Dopo, per mesi, ogni sera ero corso alla cabina telefonica e i gettoni scendevano sempre troppo in fretta. Per mesi avevo controllato ogni mattina con dita febbrili la cassetta delle lettere. La Pasqua successiva ero anche riuscito a fare una scappata a Bari, la nostra città.

Ma allora non c’erano i cellulari, non c’erano Skype e tutti gli altri moderni strumenti per tenersi in contatto. Così, poco a poco, fatalmente ci eravamo allontanati: non era finito l’amore, ma due vite così indipendenti una dall’altra, riempite di giorni e persone diverse, alla fine avevano diviso le nostre strade, fino a perderci.

Ma il nostro amore e la nostra storia, finita solo a causa di circostanze avverse, mi erano rimasti dentro come un rimpianto, una nostalgia, qualcosa che sonnecchiava nascosto in sconosciuti anfratti del cuore e ogni tanto si svegliava e faceva male.
Anni dopo, ne avevo 45, ormai, ero tornato a Bari in occasione del matrimonio di una mia cugina. Ricordo tutto come fosse ora. Altre volte, in precedenza, avevo fatto brevi puntate in città e sempre, respirando l’aria di casa, il ricordo di Antonella e di noi due era riemerso, vivo e pungente. Appena arrivato, correvo a via Sparano cercando tra la folla un viso che non sapevo nemmeno come avrebbe potuto essere ora, e sussultavo quando, per un attimo, credevo di averlo visto in questa o quella persona. Poi, deluso, me ne andavo sorridendo amaramente della mia ingenuità e delle mie illusioni. Facevo anche una puntata sul lungomare e negli altri posti che erano stati nostri… Il giorno del matrimonio c’era un bel sole e, dopo la cerimonia, io e gli altri invitati ci aggiravamo su una grande terrazza affacciata sul mare con i calici di spumante in mano.

Parte degli ospiti erano miei parenti vicini e lontani. Mi univo ai vari gruppetti e mi piaceva intrattenermi con molti di loro che non vedevo da una vita. C’erano, però, anche persone che non conoscevo, persone mai viste prima su cui posavo distrattamente lo sguardo passando rapidamente oltre. Su una bella donna con i capelli scuri raccolti dietro, però, qualcosa mi aveva spinto a tornare; probabilmente perché era una bella donna, appunto, però mi aveva incuriosito spingendomi a voltarmi di nuovo. Stava chiacchierando, così io, in disparte, potevo osservarla senza essere notato.

Dove l’avevo già vista? Perché io l’avevo già vista. Potevo sbagliarmi, eppure… Passavo mentalmente in rassegna luoghi e situazioni in cui potessimo già esserci incontrati, ma proprio non riuscivo a individuarne uno. Eppure, non riuscivo a pensare ad altro. Avvicinandomi, coglievo nuovi particolari del suo viso, di profilo rispetto a me. Di pari passo con una crescente sensazione di familiarità, il mio cuore stava impercettibilmente accelerando; quando, improvvisamente, si era girata dalla mia parte, eccolo invece schizzare a mille: perché, ora, ogni dettaglio di quel volto mi stava catapultando indietro nel tempo, e io vedevo in lei la ragazzina dai lunghi capelli neri di tanti anni prima. Non era possibile! Ma che stavo pensando? Eppure, più la guardavo e più scoprivo che i suoi lineamenti potevano corrispondere a quelli della ragazza che ricordavo. Agitatissimo, avevo allora chiesto a mia cugina. Era una sua cara amica, mi disse, e in effetti si chiamava Antonella. «Vieni, te la presento».

Non scorderò mai il momento in cui ci siamo trovati uno di fronte all’altra: il suo atteggiamento formale del primo istante poi, mentre ci stringevamo la mano, l’improvviso lampo di stupore nei suoi occhi e la sua voce rotta dall’emozione: «Marco…».

Non so se siano stati un’espressione conosciuta sul viso o i segreti messaggi scambiati al tocco delle nostre dita, ma tanto era bastato per riconoscerci.

Due battute con la cugina su questa incredibile coincidenza, poi io e Antonella ci eravamo appoggiati alla ringhiera della terrazza, restando per un po’ in silenzio e guardando il mare. Le nostre spalle si sfioravano, lei non si spostava, e mi piaceva tanto quel contatto.

«Sei sempre bellissima».
«Falsone, vedo che non sei cambiato».
«Non è vero, basta guardarti».
«Allora, diciamo che mi so aggiustare; comunque, anche tu stai invecchiando bene, vedo. Quella chiazza chiara tra i capelli, però…». E mi aveva strizzato l’occhio sorridendo.
«Ti eri iscritta a Lettere, che hai fatto, dopo?».
«Ho cominciato con le supplenze nella scuola, ora insegno Filosofia alle superiori. E tu? Hai finito Ingegneria, ce l’hai fatta?».
«Sì, costruisco case».

Eravamo entrambi un po’ impacciati a chiacchierare insieme, inevitabilmente, dopo una mezza vita lontani.

Piano piano, però, rivivendo alcuni episodi del nostro passato che entrambi ricordavamo, si accorciavano le distanze tra ciò che eravamo stati e ciò che eravamo ora, e, dopo un po’, era come se stessimo semplicemente riprendendo un discorso lasciato a metà. Era bello sentirla vicina, quasi non ci credevo, dopo averlo tanto sognato. Quando mia cugina, troppo presto, ci aveva chiamati per il taglio della torta, mi era spiaciuto molto dover interrompere quel breve, magico momento. Solo quando ci eravamo mossi e lei aveva spostato la mano dalla ringhiera, avevo notato la fede al suo dito, provando una piccola stretta al cuore e cercando di nascondere la mia delusione.

Perché delusione, poi? Me lo chiedevo, cercando di vedere le cose con lucidità. Forse che, come la prima volta di tanti anni prima, già mi vedevo a cavalcioni di arcobaleni con lei? Ma era assurdo, non potevo essere tanto ridicolo!
Nel corso di quel ricevimento, ci eravamo ancora incrociati senza più avere, però, la possibilità di rimanere soli, nonostante i miei tentativi.
Solo alla fine, mentre tutti se ne andavano, avevo potuto avvicinarla e, salutandola, le avevo chiesto: «Posso venire a prenderti a scuola, domani?».

Un filo di batticuore, in attesa della risposta, poi il suo sorriso: «Certo, vieni, abbiamo tante cose da raccontarci. Se ti va, pranziamo fuori».

Mi ero addormentato tardi, quella notte; la sorpresa dell’incontro, l’improvviso e tumultuoso riemergere di ricordi che avevo scoperto ancora vivissimi, l’emozione provata nel guardarla e nell’ascoltare la sua voce, l’ansia di raccontarmi a lei e di sentirla raccontare mi agitavano, ed ero impaziente che venisse domani. Pensandoci bene, non avevano senso queste mie aspettative, non avevo neanche ben chiaro cosa mi stessi aspettando. Immaginare che anche lei, in tutti questi anni, avesse provato ogni tanto la mia stessa nostalgia, forse era solo un’illusione. E poi, aveva la fede al dito, non dovevo scordarlo. C’era il sole anche il mattino dopo quando, recuperata Antonella all’uscita da scuola, ci eravamo seduti al tavolo appartato di un ristorante sul mare che lei conosceva. «Se ben ricordo, eri un patito del pesce crudo, qui ti puoi sbizzarrire» mi aveva strizzato l’occhio. «Il proprietario è un amico e mi ha procurato anche i datteri e i taratuffi, ma non si potrebbe». Avevamo riso sul mio giuramento di non raccontarlo a nessuno. «Marco, hai messo la testa a posto o sei rimasto il matto che eri?».

Avevo simulato un’espressione di stupore. «No, sono diventato un posato professionista».

Risate anche su quella e altre battute in una calda e piacevole atmosfera di complicità. Avevo trattenuto il respiro quando, avvicinandole alla bocca la fiamma dell’accendino per la sigaretta, mi aveva preso la mano tra le sue.

Si era poi parlato di noi, delle nostre vite dopo, del vuoto che ci era rimasto dentro e di un filo che non si era mai veramente spezzato. Anche lei era tornata, ogni tanto, nei nostri posti.

«No, non mi sono sposato, a causa del mio lavoro sono sempre in giro per il mondo. Non ho nemmeno figli, e questo è il mio grande rammarico. E tu?». Gliel’avevo chiesto guardando la sua fede al dito e immaginando che quella fosse già la risposta.

«Ho incontrato Daniele dopo l’università, ci siamo sposati e abbiamo due ragazzi meravigliosi. I miei figli sono la mia vita».
Un lungo silenzio e c’era qualcosa di diverso, ora, come un’ombra, nella sua espressione, e io non capivo. «Anto, sei felice?».

Il suo amaro sorriso e gli occhi improvvisamente umidi. Si era alzata: «Facciamo due passi sul mare?». Camminavamo, e io, con lei accanto, sarei arrivato chissà dove. Il tempo passava e anche lei sembrava non aver fretta. A un tratto si era fermata guardandomi con l’espressione dolce che ricordavo: «Sono felice di averti ritrovato». Si era poi avvicinata per sfiorarmi le labbra con un bacio.

Camminando, le avevo preso la mano, e lei l’aveva stretta. Mezz’ora così, poi le parole che non avrei mai voluto sentire e una fitta dolorosa: «Marco, è tardi, devo andare».
«Ti prego, resta ancora».
«Non posso, davvero».
«Ti rivedo, Anto?».
Un lungo silenzio, prima di rispondere. «No, meglio di no, perché poi…» le sue lacrime improvvise. «E loro non capirebbero».
Un ultimo abbraccio, poi si era allontanata senza voltarsi. Non l’avevo più sentita.

Oggi compio gli anni e taglierò la torta. Festeggeremo in due perché, in casa mia, viviamo in due. Solo che 70 candeline non ci stavano, così ne abbiamo messa una sola più grande.

Stappo la bottiglia di champagne e alziamo le coppe, il sorriso di Antonella è lo stesso di una domenica pomeriggio lontana.
«Auguri, vecchione!». Si avvicina e mi sfiora le labbra con un bacio.
Due anni fa, ormai in pensione, sono tornato a vivere a Bari. Una sera, poco dopo il mio arrivo, ho composto, non convinto, un numero di telefono che avevo sempre conservato. La mia indescrivibile emozione nel sentire la sua voce.

Ci siamo raccontati l’altra mezza vita che ci mancava, con lei rimasta sola dopo la separazione dal marito avvenuta anni prima, i suoi due figli sposati e la sua vita di nonna adesso, felice di occuparsi dei nipotini.

L’ho ascoltata per un po’, poi ho detto: «Posso accompagnarti, domani, quando vai a prenderli a scuola?». ●

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