Una sposa in valigia

Cuore
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Una sposa in Valigia, pubblicata sul n. 40 di Confidenze, è la storia vera più apprezzata della settimana sulla pagina Facebook. Ve la riproponiamo sul blog

 

Il giorno delle nozze forse ero più innamorata dell’abito che di mio marito. O forse ci siamo persi dopo, per noia. Sta di fatto che quel vestito ricercatissimo, a un certo punto, mi ha portato fortuna. È stato quando ho deciso di donarlo

STORIA VERA DI ELENA D. RACCOLTA DA ANNA BALTIA DELFINI

 

In fondo l’ho sempre saputo che quel matrimonio sarebbe finito male. «Una donna certe cose se le sente»: quante volte l’avevo sentita questa frase? Me la dicevano mia madre, mia sorella, la mia amica Sara: ogni volta si riferivano a un argomento diverso, ma si parlava sempre del famoso sesto senso femminile. Evidentemente io non ero stata brava nel coglierlo. Era cominciato tutto con un vestito. L’avevo visto in una boutique del centro storico a Venezia: l’abito era esposto in un angolo nascosto ed era contornato da petali azzurri. Non appena i miei occhi avevano incrociato quel modellino, nella mia testa era iniziata a scorrere, come in un film, una favola ambientata in laguna nella quale io ero vestita da sposa trasportata da una gondola, perché a Venezia una sposa deve arrivare in chiesa con la gondola. Eccolo lì l’abito dei miei sogni, non troppo vaporoso, ma di un bianco seta tanto brillante che colpiva anche attraverso la vetrina. Era diverso dagli altri abiti che avevo visto per un particolare che aveva da subito attirato la mia attenzione: una fusciacca scura intorno alla vita. Lo trovavo un tocco d’eleganza, una cosa raffinata, un dettaglio che mi avrebbe distinta da tutte le altre spose. Mi dovetti quasi ricredere vista l’opinione degli altri su quel particolare eccentrico. «Quella fusciacca blu è orribile!» era la prima cosa che aveva detto mia madre vedendomelo addosso. Secondo lei le spose non portano nulla di colorato a parte i fiori, senza contare che il vestito mi lasciava scoperte le spalle e don Luigi non avrebbe fatto altro che lanciarmi occhiate di disapprovazione in chiesa. Non piaceva a nessuno quell’abito sontuoso con quella grande fusciacca blu di seta attorno alla vita. Questa era la verità. Anche le mie amiche avevano commentato senza farsi troppo riguardo e le mie zie più anziane non avevano risparmiato polemiche su quel tocco colorato che a loro sembrava addirittura sconveniente. Cocciuta e ostinata, avevo deciso di comprarlo lo stesso.

Era stato un bel matrimonio comunque, a parte il vestito così chiacchierato. Con mio marito Claudio avevamo fatto perfino il famoso giro in gondola e le foto a San Marco. Tutto come avevo previsto nei miei sogni di bambina. Ma anche lì era in agguato un intoppo. Un maledetto gabbiano, o forse solo un piccione sovrappeso, aveva deciso di lasciare un bel ricordino sul mio velo candido. Mia madre era agitatissima mentre cercava di pulire il danno a tempo di record. Come se non bastasse, io ero intenta a liberare il tacco della scarpa sinistra da una piccola buca nel selciato, ma avevo tanto insistito che ero riuscita a farlo scollare di netto dalla base della suola foderata in seta. A ripensarci oggi, mi viene da ridere. Allora però si era consumato un piccolo dramma e tutto il parentado arrivato dal sud Italia aveva seminato panico sul mio futuro sentimentale, evidentemente segnato dalla sventura.

In realtà Claudio non era mai stato davvero l’uomo della mia vita. Ci siamo sposati giovani, troppo giovani. Immaginavo che i primi tempi insieme sarebbero stati all’insegna del diverti- mento e della spensieratezza. Invece già dopo qualche anno di matrimonio mi salutava appena e passava interi weekend a giocare alla playstation come fosse stato un ragazzino.

Non chiedevo chissà che, ma spesso mi sentivo invisibile e le nostre conversazioni domestiche si limitavano a “cosa facciamo per cena?” o “che serie ci vediamo stasera?”. Io le detestavo quelle serie tivù, le trovavo noiose e ripetitive: avrei preferito andare a cena fuori, o magari passare qualche serata in più in intimità, proprio quella che forse non c’era mai stata davvero fra me e Claudio. Toccai il fondo nel nostro rapporto quando, tornata a casa con i capelli cortissimi dopo una vita di trecce e code, lui non si accorse nemmeno del cambio.

Non si era accorto neppure che l’avevo tradito, tanto era preso dalle sue serie e dai suoi videogiochi. L’avevo tradito per rabbia, forse solo per provocare in lui una reazione. Ma non era servito a niente, continuava a fare le sue stupide gare con amici virtuali.

«Elena, rimarrai zitella di questo passo, hai già superato i 30» mi ripeteva mia madre dopo che, alla fine, Claudio e io ci eravamo separati: naturalmente non dimenticava mai di aggiungere un “te l’avevo detto” alla fine di ogni frase. Ma io non mi sentivo sola e tantomeno zitella come diceva lei, solo per ricordarmi che non avevo saputo scegliere un buon abito da sposa, figurarsi un marito. Certo, mi sarebbe piaciuto avere una storia, ma le relazioni che avevo vissuto nei due anni successivi al divorzio erano state brevi e senza grandi slanci. Uscivo spesso, mi divertivo, ma gli uomini che incontravo erano noiosi, narcisisti, troppo chiacchieroni: alcuni di loro mi facevano addirittura immaginare che sarebbero diventati in poco tempo una copia di Claudio, dunque non facevano per me. Forse la sua presenza era ancora troppo forte nella casa che avevamo sistemato insieme e nella quale ero rimasta ad abitare. Ero circondata da cose che aveva voluto comprare lui e il tutto iniziava a starmi stretto. Non c’era niente di nostalgico in questo, non avevo alcun tipo di rimpianto: la verità nuda e cruda era che io Claudio non lo amavo più, anzi forse non lo avevo mai amato. Così, sotto lo sguardo incredulo di mia madre, avevo impacchettato velocemente ogni cosa e messo in vendita la casa. Con Claudio ci eravamo accordati per dividere il ricavato.

Fu proprio in uno dei pomeriggi durante i quali stavo preparando gli scatoloni che riemerse il mio abito da sposa con la tanto odiata fusciacca blu di Prussia, oggetto di tanto scandalo. “E cosa ne faccio di te adesso?” mi ero domandata assalita dall’ansia, visto che non avevo fatto i conti con quel ricordo pesante, sottogonna e velo incluso. Spesso nei matrimoni felici gli abiti da sposa occupano un inviolabile posto di riguardo negli armadi. Ma quando le unioni finiscono possono diventare quasi spettri ingombranti, fluttuanti, pronti a rubarti spazio non solo nell’armadio, ma anche nel cuore. «Perché non lo vendi?» mi aveva suggerito Sara e in effetti era la prima cosa che avevo un cassonetto degli abiti usati: in fondo era un prodotto di alta sartoria veneziana e mi si spezzava il cuore al pensiero di lasciarlo scivolare in una di quelle enormi scatole di genza e avevo provato anche a studiare il motore che emetteva fumo per cercare di capire cosa fosse successo. Ma naturalmente non ero capace di venire a capo del problema.

«Le serve una mano?». Una bella voce maschile mi aveva raggiunta alle spalle mentre cercavo invano di contattare il servizio d’emergenza. Voltandomi avevo incrociato il riflesso del mio viso negli occhiali a specchio di un uomo. Si era fermato con un’auto sportiva nera dietro la mia Cinquecento. «Non saprei, cercavo di chiamare aiuto. Non so proprio perché si sia fermata». «Mi lasci dare un’occhiata».

Senza aggiungere altro, aveva rivoltato le maniche della camicia jeans e aveva preso a smanettare nel motore. Era un tipo alto, non più giovanissimo, poco oltre la quarantina, ma con un bel fisico asciutto. Non riuscivo a vederlo bene in viso e, come una sedicenne, cercavo di assumere pose il più possibile naturali mentre ne spiavo i tratti senza farmi accorgere. Ma che mi prendeva? Poteva esse- re un malintenzionato, mia madre certo non avrebbe approvato. Eppure, nonostante fossi immersa nel più tipico cliché dell’automobilista in panne soccorsa dal belloccio, mi pareva di vivere la situazione più interessante da due anni a questa parte. Notai anche che aveva un bel sedere.

«Niente di grave, ma le consiglio di non farci viaggi lunghi, è una macchina d’epoca ormai. Dove deve arrivare?» mi chiese alla fine della sua indagine.

«A Cascia».

«Anche io vado a Cascia, se vuole la seguo con la mia macchina. In città conosco un meccanico che può sistemargliela». Aveva detto tutto con tono deciso, ma non arrogante, sembrava un tipo diretto.

«D’accordo» avevo risposto. Così avevamo ripreso la strada verso Cascia, io davanti con le quattro frecce accese e lui dietro. Ci era voluto più del previsto per arrivare: non riuscivo a tirare troppo con l’acceleratore e temevo di peggiorare il danno. Mentre guidavo avevo anche telefonato a Sara. Credevo che mi avrebbe rimproverata per la scelta un po’ audace di accettare aiuto da uno sconosciuto, invece era entusiasta. Aveva anche citato il film Un tram che si chiama desiderio nel quale la protagonista dice di aver sempre confidato nella gentilezza degli estranei; se l’aveva fatto lei, perché non potevo farlo io? Sara è sempre stata un po’ melodrammatica.
Arrivati a Cascia, lo sconosciuto mi aveva fatto cenno di accostare ed era sceso dall’auto.

«Questo è il contatto del meccanico. Lo chiami pure domattina». Stava quasi per ripartire, quando l’avevo richiamato. «Aspetti, posso offrirle almeno un caffè? È stato così gentile…».

Mi ero subito pentita di averglielo chiesto, ma il tipo si era tolto gli occhiali da sole fulminandomi con un paio d’occhi azzurri che mi avevano stregata.

«Non si rifiuta mai un caffè con una bella donna».

Il caffè era diventato un aperitivo e l’aperitivo una cena. Eravamo così presi a chiacchierare che il tempo era volato. A parte lo sguardo che mi aveva colpito da subito, in una vita passata non avrebbe neppure attirato la mia attenzione. Eppure in quel momento con la sua schiettezza e una bella semplicità nei modi mi pareva l’uomo più interessante del mondo. Mi aveva invitata a casa sua per il bicchiere della staffa. Complice l’alcol e la mia voglia di trasgressione che Claudio non aveva mai saputo soddisfare, ero finita tra le sue braccia e avevo vissuto forse la notte più passionale della mia vita. L’indomani mi ero svegliata in un letto vuoto, il mio cavaliere misterioso era sparito.

Subito mi ero sentita una scema. Avevo già fantasticato su chissà cosa e invece era stata solo l’avventura di una notte. Mi ero rivestita in fretta, desiderosa di andarmene prima possibile, quando mi era caduto l’occhio sul comodino. Sopra vi era posato un sacchetto bianco da bar con dentro un cornetto e una scritta con pennarello: “Chiama il meccanico”. Le ore passate acquistavano una nuova luce: in fondo era stato gentile, anche se solo per una notte, e io ero stata bene come da tempo non succedeva.

Avevo finito di prepararmi con calma, mangiato il cornetto, e mi ero diretta al monastero. La badessa mi aveva accolto con gentilezza accettando volentieri il mio abito: aveva aggiunto che quel gesto mi avrebbe portato fortuna.

«Ciao fusciacca blu» avevo detto sorridendo al vestito prima di andare via. Recuperato il biglietto con l’indirizzo del meccanico, ero andata direttamente in officina. L’avevo trovata facilmente, non era lontana dal centro storico. Prima di scendere dalla mia Cinquecento stremata, avevo ricevuto un messaggio dall’agenzia immobiliare che aveva preso in carico la mia casa: mi comunicavano che c’era un’ottima offerta per la vendita. Entrata nell’officina, mi ero guardata intorno, ma non sembrava esserci nessuno. Alla fine avevo notato un paio di gambe dentro una tuta macchiata spuntare da sotto una jeep.

«Sei una che dorme, eh?». Di nuovo quegli occhi azzurri da infarto. Eravamo scoppiati a ridere. Mi avevano detto che Santa Rita era la patrona delle cause impossibili. Doveva essere lei ad avermi portato fortuna e io ero pronta per ricominciare.

 

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