Alfonso

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Viveva all’ultimo piano di una palazzina di Centocelle. Quando aprì la porta non capii se fosse uomo o donna e provai imbarazzo. Ci pensò lui a rompere il ghiaccio, aprendosi con me senza riserve. Fu l’inizio di un’amicizia

 

Storia vera di Adriana B. raccolta da Fabiana Dantinelli

Questionario numero 57. Palazzina giallo limone, bassa e quadrata, saranno un quattro piani, incrocio Via dei gelsi. Sto cercando un certo Alfonso P.

È iniziata così la mia estate del 2011, un’estate che mi vedeva squattrinata e senza prospettive. Per questo avevo accettato uno sfiancante lavoro come “rilevatore esterno del censimento di Roma capitale”: in buona sintesi avrei fatto il messo comunale e il mio compito, dopo un breve addestramento, sarebbe stato quello di consegnare tutta una serie di questionari a vari nuclei abitativi. Lo scopo era appunto quello di realizzare un censimento, aggiornando i dati dall’ultima rilevazione che in sostanza avviene ogni dieci anni.

A pensarci oggi, dopo una pandemia mondiale, mi viene quasi da ridere, ma allora entrare nelle case della gente per consegnare un questionario, aiutare eventualmente nella compilazione oppure ripassare con calma a ritirarlo dopo che lo avessero riempito in autonomia, era una cosa del tutto normale. Peccato poi che il quartiere di riferimento per me era stato Centocelle, uno dei più grandi di Roma. Avrei incontrato quasi 1.000 famiglie nell’arco di circa cinque mesi più o meno da maggio a ottobre: tante facce, tante storie, alcune incredibili, altre fantastiche, molte tristi, ma nessuna come quella di Alfonso.

La sua palazzina era appunto di un bel giallo acceso che risplendeva sotto i raggi del sole e il citofono era uno dei pochi che avevo incontrato nel mio piccolo viaggio di quartiere, che non sembrasse uscito da un film dell’orrore. Così, avevo suonato fiduciosa. Mi aveva risposto dopo qualche istante una voce intimidita che chiedeva chi fossi.

 

«Cerco il signor Alfonso».

Dall’altro capo del citofono ancora la voce timorosa, ma il tono era improvvisamente diventato secco: «Non c’è».

«Capisco, può dirmi quando posso trovarlo? È molto importante. Mi manda il comune».

«Che vuole il comune?».

«Sono una rilevatrice esterna del censimento, devo consegnare un questionario, se non lo accetta dovrò fare una segnalazione e poi le faranno una multa. Se mi apre le spiego meglio» risposi con calma. «Le giuro che non sono né una truffatrice né un esattore».

Avevo fatto due conti rispetto al numero dell’interno e avevo intuito che Alfonso abitava nell’attico. O meglio, nell’ex locale lavatoio dove doveva essere evidentemente stato ricavato un altro piccolo appartamento, negli anni in cui i permessi edilizi non erano così stringenti. «Se si affaccia alla finestra, le mostro il tesserino». Mi ero staccata dal citofono, mettendo alla prova la mia scoliosi, con una piegata di reni che neanche una ginnasta. Subito avevo visto scostarsi appena, da una tendina vinaccia della terrazzina verandata, un paio di occhi scuri. Avevo sollevato il tesserino, appeso a una specie di collare di plastica che mi si appiccicava al collo e avevo ripetuto la filastrocca del messo comunale, che non ero una brutta persona, che stavo solo lavorando eccetera eccetera. Avevo imparato a memoria quella tiritera e l’avevo ripetuta un numero di volte tale, che ero sicura si fosse fatalmente radicata nel mio cervello al punto che un giorno qualunque in mezzo a una conversazione del tutto lontana nei contenuti e nella forma avrei detto: “salve signora sono un messo comunale, non sono una truffatrice, devo solo consegnare un questionario”. E a quel punto tutti mi avrebbero creduto pazza.

Avevo riportato il collo da posizione pterodattilo a umana, sentendomi scrocchiare pericolosamente un paio di vertebre, nessuna risposta dal citofono. Stavo per andarmene sconsolata, quando invece il portone si era aperto. Avevo guardato d’istinto in alto, ma gli occhi scuri non c’erano più, anche se leggevo ancora una sagoma dietro la tenda. Entrando mi ero subito accorta della mancanza dell’ascensore. Invenzione che, in molti di quei palazzi, non sembrava essere ancora arrivata. Avevo salito a fatica le scale alte di marmo sotto il peso dello zaino zeppo di carte e finalmente ero arrivata davanti alla porticina di quello che, presumibilmente, doveva essere il lavatoio, accanto al locale caldaie. Mi ero posizionata così, tattica e precisa, davanti allo spioncino e avevo mostrato nuovamente il tesserino appiccicaticcio, ripetendo ancora una volta tutta la faccenda del messo comunale, dopotutto come usava affermare la mia disperata prof di latino: “Repetita iuvant”. Di nuovo nessuna risposta.

“Sì, ecco adesso me ne vado a comprare 56 stecche di sigarette e 72.000 alette di pollo fritte e mi uccido così” pensai.

La piccola porta però era stata più veloce del mio pensiero omicida e l’orrenda morte evocata nella calura, con l’immagine di me soffocata dal fumo e derivati animali non meglio chiariti, aveva rinfoderato la falce. Poco a poco aveva assunto nitidezza di fronte ai miei occhi una figura un po’ strana, un ibrido fra Moira Orfei e Renato Zero, ma più alto, con indosso una vestaglia sgargiante di panno e un turbante di capelli nerissimi e lucidi che avevano tutta l’aria di essere una parrucca. Sul viso, puntinato di una leggera neve di barba bianchiccia, emergevano delle labbra gonfie, quasi tumefatte, un naso schiacciato a patata e quel paio di occhi d’inchiostro che già oltre la tendina vinaccia, erano riusciti a spaccare la barriera del vetro.

Superato il momentaneo imbarazzo per quell’incontro fuori dagli schemi, avevo chiesto nuovamente notizia dell’intestatario.

«Salve, sto cercando il signor Alfonso. Lei è una parente?»

«Sono la sorella».

La risposta mi aveva inspiegabilmente spiazzato. Non avevo mai avuto a dire il vero una grande esperienza in fatto di persone transgender, in quegli anni non se ne parlava molto e il mio ristrettissimo ed evidentemente stereotipato immaginario in proposito le circoscriveva all’ambito latino americano, in ogni caso mi venivano in mente solo persone giovani.

Mi ero improvvisamente trovata a disagio, impreparatissima a rapportarmi con la persona che avevo di fronte nel modo giusto, senza creare imbarazzo o riferirmi al genere sbagliato e creare pur senza volerlo un’incauta offesa. Mi era salita improvvisamente la stessa ansia di quando non riuscivo a finire la versione di latino e a un quarto d’ora della consegna non avevo più tempo per migliorare una traduzione sbilenca e improbabile in cui Giulio Cesare invece di conquistare la Gallia giocava a carte con Vercingetorige.

La “Moira-Renato” sembrò cogliere quel disagio e per togliermi d’impaccio mi fece entrare, affermando di poter svolgere il questionario per conto di suo fratello Alfonso. La casa era come schiacciata. Il soffitto basso e le pareti di ogni stanza di un colore diverso. Si sentiva un odore come di terra prima della pioggia e in effetti un po’ ovunque era pieno di piante. Sul divano, coperto da una specie di fodera di ciniglia arancione, campeggiava un vistoso volantino mezzo accartocciato della chiromante Mademoiselle Sybille con una boccettina di smalto rosso.

«Lo vuoi un caffè, signorì?» mi aveva chiesto a un tratto la sorella di Alfonso a cui avrei voluto dire di no, vista la quantità di caffè che con quel lavoro avevo finito per bere praticamente in ogni casa in cui entravo, ma lei non mi aveva lasciato il tempo di rispondere e aveva messo su la moka.

Così mi aveva gentilmente fatto accomodare al tavolo dell’ambiente salotto-cucina, sopra una delle sedie foderate di pellicola trasparente per alimenti, spiegandomi che usava incellophanarle «Se no si rovinano».

«Allora lei è la signora… Signorina…».

Ecco già mi stavo impappinando, lo sapevo. Avevo iniziato a sudare, soprattutto dalle cosce, che sentivo irrimediabilmente incollate alla fodera plasticosa delle sedie damascate, mi toccavo la fronte, balbettavo maledicendomi interiormente per il fatto di trovarmi sempre nel posto sbagliato, al momento sbagliato, a dire la cosa sbagliata. La sorella di Alfonso però mi aveva sorriso.

«Signorina. Come te! Però te sei giovane, io so’ vecchia. Senti facciamo che ‘sto questionaro lo faccio io al posto di mio fratello, tanto è uguale, no?».

No non era esattamente uguale, ma non avevo trovato nessun valido motivo per contraddirla. Questa strana donna androgina mi guardava serenamente immersa in un bagno di ormonalità indecisa e i suoi occhi scuri e brillanti mi ispiravano una tenerissima onestà. Poi, non vedevo perché non dovessi fidarmi di quel transgender ultrasessantenne che evidentemente preferiva presentarsi come la “sorella” del fantomatico Alfonso. Così avevamo iniziato a compilare il questionario, io avevo raccolto prima tutte le informazione tecniche sulla casa con la meticolosità di un ingegnere che progetta il rifacimento della Salerno-Reggio Calabria, poi ero passata ai dati personali di Alfonso.

«Quando è nato Alfonso?» avevo domandato seria, ma la mia interlocutrice era sobbalzata, lasciando ondeggiare pericolosamente il turbante verso il divano.

«Oh, Santa Barbara il caffè!».

Si era alzata di scatto, ciabattando svelta verso la cucinetta, delimitata da una porta ad arco coperta solo da un filame di perline colorate. Era ritornata dopo qualche istante con due tazzine rosa e una zuccheriera, il tutto ordinatamente e briosamente disposto sopra un vassoietto d’argento. Avevo bevuto il caffè sbruciacchiato, insistendo con le zollette di zucchero per coprirne il saporaccio, ma alla fine avevo fatto finta fosse buonissimo, simulando una credibile approvazione. Avevo bevuto così tanti caffè da quando avevo iniziato il lavoro di rilevatrice, che pensavo sarei stata sveglia per sempre.

«La sai tu, la storia di Santa Barbara? È la santa mia». Si era alzata di nuovo, diretta verso la credenza, per ritornare al tavolo con un santino, dove intravedevo la figura di una donna in cima a una torre, con la testa coronata, una spada nella mano sinistra e una palma nella mano destra. «Il padre l’aveva chiusa dentro una torre, poi l’ha fatta torturà, j’ha tagliato le mammelle, l’ha bruciata tutta, l’ha torturata e poi j’ha fatto tajà la testa. Ma lei ha resistito a tutto, a tutto». Aveva baciato con sentito affetto il santino e lo aveva riposto nel cassetto della credenza da cui lo aveva riesumato e dove campeggiava una strana pianta con dei fiori un po’ spelacchiati. «Questa ti piace?» mi aveva chiesto.

Mi ero limitata a un cenno di assenso.

«È Nina. L’ho chiamata così. È la pianta da’ miseria, perché nun more mai». Era scoppiata a ridere contenta, poi era tornata a sedersi, lasciandomi riprendere con le domande su Alfonso. Da principio aveva risposto sempre in terza persona, riferendosi al fratello “assente”, poi però aveva iniziato a parlare di Alfonso, come di se stesso.

Ci aveva divise dapprincipio un silenzio imbarazzato che mi era sembrato invalicabile. Che cosa dovevo dire adesso? Dovevo fare finta di niente, o riferirmi a lei, come Alfonso? Avevo ripreso a toccarmi la fronte, a grattarmi la testa, a cercare di staccare nervosamente le cosce intrappolate nel cellophane, mentre iniziavo a vedere alette di pollo fritte a cavallo di grappoli fumanti di sigarette che sfrecciavano come missili SS-20 intorno alla parrucca-turbante. Chissà se il caffè bruciato è allucinogeno.

Alla fine però, era stato proprio Alfonso, autodenunciandosi, a tirarmi a viva forza fuori da quell’impasse.

«Sai quando l’ho capito signorì?» mi aveva domandato d’improvviso sorridendomi ancora. Non ero riuscita a rispondere, Alfonso si era sistemato meglio sulla sedia sospirando, aggiustandosi un poco la vestaglia, mi guardava fisso adesso, sentivo che era pronto alla confessione, forse io un po’ meno, ma lo stesso restavo immobile in ascolto.

«Mio fratello aveva un monopattino, bello, bellissimo! Mio padre era falegname e je l’aveva fatto con tanto amore, di legno di frassino, era la gamba di un mobile vecchio che gl’aveva portato zio Tony. Come er ciocco de Pinocchio signorì! Insomma, l’aveva tutto lisciato e lucidato e sotto c’aveva messo due rotelle di plastica, regalate da Gigi della ferramenta a Tor de Schiavi. Sì, perché prima, signorì, a via de Tor de Schiavi non ci stava nemmeno la strada. Era tutta terra battuta e i ragazzini correvano come matti con i monopattini, avanti indietro, e facevano un gran baccano. C’era comare Franca, la moglie del sor Gino, che strillava come un’aquila. Sì, perché i monopattini di una volta avevano le ruote di legno, mica come adesso. Poi hanno inventato la plastica, ma dopo. Insomma, il sor Gino era una pasta d’uomo, tanto buono e lo fregarono bene bene; infatti, comprò delle ruote di plastica per un cliente suo e gliele diedero tutte mezze scorticate. Insomma, signorì, per fattela breve, per non farsi scoprire dalla moglie che l’avevano fregato, lui prese tutte ‘ste rotelle e ce le regalò a noi ragazzini. Mio padre le aveva montate sui monopattini, ma quello di mio fratello era il più bello. Io ero piccolo e non ci potevo andare sul monopattino suo, pure se mi piaceva, non sai quanto me piaceva signorì! Ma siccome, anche se era un bulletto, io a mio fratello Amodio gli volevo bene, una sera lo sai che feci signorì? Mio fratello aveva tutte le foderine colorate sui libri di scuola, mia madre ci teneva, che doveva far bella figura, diceva che i ragazzini con le orecchie ai libri erano figli dei poveracci e non stava bene. Allora io una sera, quando dormivano tutti a casa mia, presi tutte le foderine di mio fratello e me misi a tagliarle tutte a striscioline colorate, poi avevo legato tutte le striscioline bene ai manici del monopattino, così quando c’era vento si muovevano tutte, sai com’erano belle? Ma l’indomani signorì, mi fratello lo sai che me disse? Disse che era una cosa da femmina».

Alfonso adesso che raccontava era rilassato, come privo di un peso enorme.

«C’aveva ragione signorì. Non sai quante ne ho prese…».

Di nuovo quella risata fragorosa, l’imbarazzo si era sciolto e anch’io ero più distesa. Ma non avevo ancora ascoltato la parte brutta della storia.

Alfonso aveva aggiunto che alla morte dei genitori, suo fratello Amodio l’aveva praticamente rinchiuso in quella casetta abusiva, come Santa Barbara nella torre, per la vergogna. Che l’aveva convinto di essere un mostro, uno storto, uno sbagliato, che si doveva nascondere, perché una volta quelli come lui erano presi a sassate per la strada.

Poi suo fratello era morto e allora aveva dovuto fare ”la vita” finché aveva potuto, per mettere insieme almeno i soldi della luce e del gas, ma sempre senza uscire di casa, perché a uscire aveva paura di beccarsi anche un sanpietrino in testa.

La spesa gliela portava una donna del palazzo, la posta pure, gli andava anche a pagare le bollette, gli comprava quello che serviva in cambio di qualche soldo della sua misera pensione di vecchiaia. Viveva così Alfonso, per gli amici, mi disse “Fifì”. Da troppi anni ormai per poter tenere il conto.

«Io volevo fare l’attrice signorì, lo sai? Ma mia madre sai che mi diceva? Che era una brutta cosa a stare nudi in televisione, a fare l’amore per finta. Povera stella mia… Non lo sapeva lei, che l’amore per finta io ho finito per farlo tutta la vita».

Una tristezza improvvisa mi aveva raggiunto alla gola, anche se Alfonso non smetteva più di sorridere. Quando le avevo chiesto di firmare il questionario, lei con estrema difficoltà, ma al contempo leggera allegria, aveva tracciato una firma stentata.

Senza sapere perché avevo gettato come di scatto lo sguardo incredulo sopra un paio di numeri di un giornale di fotoromanzi abbandonati sul tavolo. Fifì mi aveva regalato un altro genuino, ma triste sorriso: «Di questi, più che altro guardo le figure…».

Avevo rimesso a posto le mie cose e con un grappolo di lacrime incastrate nell’esofago, insieme a tutte le alette di pollo fritte che ho mangiato nella vita e alle sigarette che avrei voglia di fumarmi, mi ero lasciata accompagnare alla porta.

«Che fai mi torni a trovare una volta, signorì? Io non parlo mai con nessuno. Solo con Nina».

Sono tornata tante volte a trovarla, ho bevuto con lei un certo numero di caffè non proprio eccezionali, le ho perfino portato un giornale di fotoromanzi dove le ho scritto l’alfabeto, su una pagina in cui Melania confessava a Tiberio di averlo tradito con il suo amico Gianni, sul bagnasciuga del Lido Rimini Blu. Un po’ alla volta, mentre le insegnavo a leggere e scrivere correntemente, siamo diventate amiche.

Dapprincipio non aveva voluto saperne di uscire, poi però l’avevo convinta con la promessa che l’avrei portata a fare le unghie e il trucco dall’estetista. Così si era fatta fare la manicure blu cobalto e il trucco “Perla di Labuan”, le era piaciuto molto e anche se con il vestito arancione che aveva insistito a indossare mi faceva sorridere, l’avevo portata in giro per la città e lei era stata felicissima di rivedere dopo tanti anni la “sua” Roma.

Ci siamo fermate da un cocomeraro sulla Tiburtina e poi in una gelateria vicina. Era rimasto solo il gusto mango. Abbiamo preso due coni e li abbiamo mangiati in silenzio su un muretto nella città deserta animata solo dal verso delle cicale.

Non credo di averla mai vista così felice.

«Signorì, ti posso chiedere una cosa?».

«Dimmi».

«Ma che è er mango?».

«Un frutto tropicale» avevo risposto ridacchiando.

«E dove cresce?».

«Non so, ma credo dalle parti di Mompracem».

«Ma perché ridi?».

«Niente, sono contenta».

«Pure io. Te l’ho chiesto perché non l’avevo mai sentito, manco nelle puntate di Sandokan. È buono però. Grazie, signorì, te vojo bene».

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