Cleopatra va in prigione di Claudia Durastanti

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Una storia che parla di una Roma che conosco bene, delle periferie che ognuno di noi nasconde dentro di sé

“Ho preso dei jeans dalla pila di panni sporchi sul pavimento, infilato una felpa sopra la maglietta del pigiama e ho chiamato un taxi allontanando la cornetta quando l’operatrice ha fatto partire una musica tropicale a volume troppo alto. In macchina ho appoggiato la fronte al finestrino e il contatto con il vetro mi ha fata sentire meglio. Io e Aurelio abbiamo fatto un patto quando eravamo ragazzini: senza l’altro non abbiamo il permesso di morire. Quando sono entrata nella sua stanza con gli album delle figurine di calcio ancora raggruppate per anno e le foto delle gite scolastiche appiccicate all’armadio – Aurelio sempre nell’ultima fila dell’autobus e abbracciato a qualche ragazza – l’ho trovato sdraiato sul letto con i vestiti ancora addosso e il corpo contorto in una posizione scomoda, da vittima di un incidente stradale. L’ho messo sotto le lenzuola senza spogliarlo e lui non si è lamentato, avvolto da una stanchezza fossile perpetua. Mi sono sfilata le scarpe e sdraiata accanto a lui cercando di guadagnare spazio sul materasso; lui mi ha artigliato la pancia e il seno senza baciarmi mentre gli accarezzavo i capelli puliti e fini. Gli ho massaggiato la schiena e ho cercato di addormentarmi come si fa prima di una partenza per un volo a basso costo nelle prime ore del mattino, con i sensi all’erta, già esausta e infelice. A un certo punto Aurelio si è alzato per andare a bere; quando è rientrato nel letto mi sono accorta che aveva la maglia impregnata di sudore. Ha acceso la lampada sul comodino, poi si è sdraiato sulla schiena e mi ha detto: ‘Guarda’, prima di iniziare a formare delle ombre cinesi sul muro. Ha fatto apparire un lupo, un coniglio e persino un cervo – con le sue dita lunghe e sottili quegli animali sembravano eleganti e vivaci, quasi possibili”. 

È possibile che in molti abbiate letto, di recente, La straniera, l’ultimo libro, incentrato sulla figura materna dell’autrice e sulle rotte migratorie verso gli Stati Uniti, della Durastanti, uscito per La nave di Teseo e candidato al premio Strega 2019. Io però voglio consigliarvi il suo terzo romanzo, il primo edito da Minimum Fax (i precedenti, A Chloe, per le ragioni sbagliate e Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra sono stati mandati in stampa da Marsilio), una storia che ho riconosciuto per il profumo che dalle pagine ancora mai aperte raccontava di una Roma che conosco, quella appena a pochi passi dal posto in cui sono nata io e che sembra distare almeno tre universi. Una storia che, a saper fare lo slalom tra i nomi e tra i fatti, ci ritrovi il tuo, di nome, e i tuoi, di fatti.

Caterina voleva fare la ballerina, il sogno l’ha riposto nel cassetto dopo un incidente, ma la ‘spinta’ le  è rimasta addosso e Caterina balla e piega il suo corpo, lo fa girare su se stesso, tende allo sfinimento muscoli e gesti: è un ballo virtuoso di danza contemporanea, a pennellate jazz, è una costanza di vita. Aurelio, il suo ragazzo, è finito in carcere. Nel locale che gestiva, in periferia, erano finite cose poco legali. Almeno così hanno affermato quelli che lo hanno portato dentro. A Rebibbia Caterina entra il giovedì, dalle due alle tre. Fuori, ma questo Aurelio non lo sa, c’è ad aspettarla un uomo, un uomo con la divisa, ‘il poliziotto’. E Caterina vola, che ad accoglierla ci sono quelle braccia forti, sapienti. Il sogno l’ha riposto nel cassetto, Caterina. Ma la danza è arte dolorosa. Divora. Divora di bellezza. E resta addosso, dentro, intorno. Dentro le periferie che ognuno di noi nasconde e difende, quelle che ci portiamo nei cuori che ci sono piovuti nell’anima e che coesistono, battono all’impazzata, si sfidano a duello.

Claudia Durastanti è bravissima. Le sue ‘coreografie’ narrative sono spartane e opulente insieme. Come i segreti che ci dannano e, insieme, ci salvano.

Claudia Durastanti, Cleopatra va in prigione, Minimum Fax

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