Cohousing: un’idea per tutte le età

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Vivere tutti insieme in una specie di comune? Una soluzione fantastica per i giovani, ma anche per gli adulti. E se ve lo dico è perché l'ho provato

Cohousing significa spartire un appartamento con sconosciuti o pseudo tali. Abitudine adottata da molti giovani per contenere le spese, ma anche un’idea che sta prendendo sempre più piede tra gli adulti.

Ve ne parlo perché leggendo l’articolo Io (non) vivo da solo (su Confidenze in edicola adesso), ho provato una botta di nostalgia per gli anni in cui anch’io ho avuto un susseguirsi di ospiti paganti che abitavano con me.

Il tutto è nato per caso. I miei figli se n’erano appena andati per conto loro quando ho incontrato una ragazza in cerca di una sistemazione. Per scherzo le ho proposto una mia stanza finché non avesse trovato un monolocale. Lei ha accettato prevedendo di rimanere un paio di mesi. Invece, l’esperienza è stata talmente bella che abbiamo convissuto quasi due anni.

Durante i quali ho preso gusto alla vita della comune, tant’è che quando lei se n’è andata, ho deciso di allargare il gruppo. Morale, a un certo punto in casa eravamo io. Un simpaticissimo ragazzo che mi ha proposto di dare ospitalità anche a un collega ramingo in cerca di domicilio. E la fidanzata del ramingo, che l’ha raggiunto dopo alcune settimane.

Così, nel giro di poco ci siamo trasformati in un ameno quartetto, formato da tre Giovani Marmotte (loro) e il Gran Mogol (ovviamente io).

Mentre la nostra piccola comune cresceva, però, le mie amiche trasecolavano al pensiero che potessi vivere con ragazzi dei quali sapevo poco niente. E che usavano la mia sala e la mia cucina come fossero di loro proprietà. Tutte cose che, invece, a me mettevano un sacco di allegria.

Ma se il nostro cohousing ha funzionato alla grande è perché alla base di tanto volersi bene c’erano l’impeccabile educazione delle Marmotte. E la loro assoluta consapevolezza del fatto che le (rarissime) direttive del Gran Mogol non potevano essere messe in discussione. Mai e poi mai.

In realtà, non c’è mai stato nessun motivo di tensione. Perché, esattamente come raccontato nell’articolo di Confidenze, ognuno di noi aveva lo spazio personale in cui poteva fare tutto quello che voleva. Mentre nei locali condivisi aleggiava la stessa divertita armonia che si vive in un bar alla moda.

La ciliegina sulla torta della magica condivisione, poi, è che piano piano le abitudini si sono definite da sole, con estrema naturalezza. Andando a coincidere con quelle degli altri. Perciò, alla mattina non ci siamo mai addossati ai fornelli per la prima colazione. In compenso, alla sera, appena ritornati dal lavoro avevamo tutti qualcuno in casa che ci aspettava.

Dopodiché, di solito le nostre strade si dividevano di nuovo. Ma qualche volta decidevamo di mangiare insieme. Allora, la fidanzata del ramingo cucinava. Io rassettavo dopo la cena. E i due ci facevano compagnia (sì, in effetti ripensandoci il nostro era un gruppo simpaticamente maschilista).

Il bello, però, era quando io avevo ospiti. Qualche giorno prima avvisavo i ragazzi, i quali avevano la facoltà di organizzarsi in due modi. Il primo era tapparsi in camera prima che gli amici arrivassero. E non uscire neanche se la stanza avesse preso fuoco. Il secondo, presentarsi a casa prima di quella che avrebbe potuto essere l’ora del (nostro) caffè.

Se succedeva, spesso si sedevano a tavola con noi, portando una ventata di gioventù con i loro racconti sui locali trend di Milano, le vicende dei lavoratori in erba, i pettegolezzi sugli amori dei loro coetanei.

In entrambi i casi, il giorno dopo spazzolavano gli avanzi che diventavano d’ufficio di loro proprietà.

Insomma, la mia esperienza di cohousing devo dire è stata eccezionale. E se la vita in questo momento mi ha portata in un’altra direzione, non escludo di riprenderla prima o poi. Magari, con un gruppetto di coetanei, per provare un’emozione diversa.

Confidenze