Marilyn «Nessuno mi aveva detto che ero bella»

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60 anni fa moriva Marilyn Monroe: simbolo del divismo hollywoodiano e di una femminilità splendente che non smetterà mai di brillare

Qual è il sex simbol femminile più famoso del Ventesimo Secolo? Se fosse inserita nei quiz scolastici, questa sarebbe una domandina facile facile. La risposta è Marilyn Monroe, che come simbolo di fascino non ebbe rivali nel secolo scorso. Anzi, del Novecento, può essere indicata come il sex symbol per definizione se non addirittura come la donna più conosciuta, l’unica (insieme a Madre Teresa di Calcutta) in grado di rivaleggiare con gli eccelsi emblemi del secolo, da Kennedy a papa Giovanni XXIII.

Oggi potrebbe essere una vecchietta di 95 anni, sopravvissuta ai suoi momenti di splendore, ma il destino vuole che la ricordiamo eternamente giovane: se n’è andata il 4 agosto 1962, e quest’anno ricorrono 60 anni dalla sua scomparsa. I

l critico cinematografico Goffredo Fofi, vent’ anni fa, ironizzava giustamente su simili riti commemorativi, quasi sempre speculazioni commerciali sui ricordi: «Quando Marilyn morì, centinaia di firme celebri, in tutto il mondo, vollero dire la loro. Centinaia di altre continuano a spiegarcela a ogni anniversario, a interpretare la sua morte, a cercar di definire il suo fascino oppure a denigrare le sue qualità di attrice o la sua statura di donna».

Sta per accadere di nuovo, anche se il tempo ha ormai stabilito che, per le generazioni successive, tutto il significato dell’esistenza di Marilyn Monroe si riassume in poche definitive parole: più che un’attrice, un’icona. Ha incarnato il simbolo del divismo hollywoodiano e anche quello di una femminilità splendente e dolorosa che non smetterà di brillare.

Al culmine della sua celebrità, consapevole della forza magnetica del suo sex appeal, aveva dichiarato: «Il guaio è che un sex symbol diventa un oggetto. E io odio essere un oggetto. Ma se devo diventare simbolo di qualcosa meglio che sia il sesso». In queste parole è racchiusa l’essenza del suo inarrestabile trionfo sullo schermo e del suo fallimento disperato nella vita.

Un’infanzia da brivido

Aveva avuto un’infanzia che poteva ben figurare in un romanzo di Dickens: nata a Los Angeles in un ambiente da brivido, Norma Jeane Mortenson Baker (i suoi veri nomi, il secondo cognome è quello di una zia che l’adottò) crebbe come un’orfana (papà era scappato quando lei era ancora nella pancia di mamma Gladys, che non aveva i mezzi per accudirla ed era segnata da una vena di follia). A sei anni aveva subito immonde attenzioni in una delle famiglie che l’avevano accolta. A 16, per sfuggire all’orfanotrofio e al pellegrinaggio di famiglia in famiglia, accettò la corte di un operaio, Jim Dougherty. Aveva cinque anni più di lei e si rivelò un bravo ragazzo, molto delicato con la moglie-bambina. Lavoravano insieme in fabbrica, verniciando fusoliere di aerei da combattimento, e Norma Jeane non passava inosservata. In tempo di guerra le fabbriche di materiale bellico sono molto valorizzate da reporter e fotografi. Uno di loro, David Conover, era incaricato anche di una specie di casting: vedere se tra le operaie ci fosse qualche ragazza che con una sua foto potesse tenere alto il morale delle truppe al fronte, qualcuna che potesse non sfigurare davanti alle pin up, stelle e stelline di Hollywood che con i loro poster allietavano per quanto possibile camerate e tende militari. Era il 1943, e Marilyn sin da quando aveva 14 anni amava indossare maglioni aderenti. La guerra finì prima che una sua foto potesse diventare poster, ma con la guerra finì anche, nel 1946, il matrimonio con Jim: lei era stata convinta a lavorare come fotomodella. Aveva accettato non solo per calcolata malizia, ma anche perché, come confesserà in seguito: «Da bambina nessuno mi aveva mai detto che ero bella. Io credo che tutte le bambine dovrebbero sentirselo dire, anche se non fosse vero».

Norma Jeane era bellissima e insicura. Lo resterà per tutta la vita. La manifestazione esteriore più appariscente era la sua puntigliosa attenzione alle foto. Il suo sguardo lungo e indagatore le esaminava tutte: le studiava per ore e, per ogni espressione che non le piaceva, cercava di capire se avesse sbagliato lei o il fotografo. Stava nascendo la sua fama di insopportabile rompiscatole. Nel 1947 è già nel giro che conta: ottiene rapidamente un contratto con la 20th Century Fox. La leggenda dice che due tra i più potenti produttori di Hollywood, Howard Hughes e Darryl Zanuck, concordassero nel vedere in Norma Jeane, ribattezzata Marilyn Monroe e trasformata da brunetta in biondissima, la “nuova Jean Harlow”. Il paragone con la più piccante, scandalosa, affascinante diva del primo cinema sonoro, scomparsa dieci anni prima, sembrava audace. Si rivelerà fin troppo riduttivo: azzeccato, purtroppo, solo come malaugurata profezia. Nella mitologia hollywoodiana Jean e Marilyn saranno accomunate da una ingiusta morte prematura.

Fino al 1950 Marilyn Monroe resta comunque una che sgomita. Guadagna 125 dollari la settimana, e la sua dieta è fatta soprattutto di panini. All’apparenza ha acquistato una maggior sicurezza, fin quasi ad accettare di essere sfrontata. È per questo che, nel 1949, si è stesa nuda su un drappo rosso in un paio di pose che ne esaltano il décolleté e il pancino scavato da un’alimentazione troppo poco calorica. Mentre il fotografo Tom Kelley (che l’ha pagata 50 dollari) scattava, lei pensava: “Chissà che non serva anche questo”. Un po’ di vera fiducia in se stessa le derivava dalla recente amicizia con Andre de Dienes. Lui era un celebre fotografo di moda e di nudo, e l’aveva usata come modella durante un viaggio nei deserti della California. E non l’aveva mai fotografata senza veli, in compenso le aveva dimostrato, non solo a parole, che considerava il suo sex appeal irresistibile. Quei momenti di sensuale trionfo resteranno una parentesi nella vita di Marilyn: le ansie avranno per sempre il sopravvento. Già dieci anni prima della morte la Monroe sarà esperta di ansiolitici, sonniferi, anfetamine, di qualsiasi pastiglia la illudesse di poter meglio affrontare lo stress. Come ha scritto Enrica Roddolo in Belle da morire, Marilyn si aggrappava a “un salvagente traditore”. Perché non sa resistere alla pressione di quello che le accade, tanto più che, nel 1953, le accade di diventare, quasi di colpo, la donna più desiderata del mondo. Il merito (o la colpa, dipende dai punti di vista) è soprattutto delle foto di Tom Kelley, che, dopo anni, escono dagli archivi e tengono a battesimo il primo numero del mensile Playboy. Anche il film Niagara, che mostra una Marilyn adultera ancheggiare in aderentissimo abito rosso, ha la sua parte nel farne un sex symbol immortale, che ben presto, con film Gli uomini preferiscono le bionde e Come sposare un milionario, si offrirà in versioni rassicuranti anche per le donne, che nei suoi personaggi vedranno un “fascino pulito, come se il sesso avesse il sapore di un cono gelato” (secondo la definizione che ne dava lo scrittore Norman Mailer). Il sesso, invece, tormentava Marilyn, che, come donna, si sentiva poco amata e non voleva andare a letto con qualcuno solo per fare ginnastica. Tipi umili, come l’ex marito Jim Dougherty, il primo marito, con la sua delicatezza, o famosi, come il fotografo Andre de Dienes, con la sua devozione, avevano lasciato il segno. Marilyn voleva un uomo che la adorasse. E lo trovò. Un evento che, come è noto, non significa fortuna. Un antico detto assicura che quando gli dei ti vogliono punire realizzano i tuoi desideri.

Marilyn Monroe, il 14 gennaio 1954, sposa l’uomo giusto: è l’ex campione di baseball Joe DiMaggio (si è ritirato nel 1951), lo sportivo più amato d’America. Si sono frequentati per un anno, bersagliati da implacabili pettegolezzi: la love story tra la bomba sexy e il dio degli stadi non poteva che essere una manovra pubblicitaria. In realtà Joe, una forza della natura in campo, era un carattere gentile, malinconico, con un’eleganza di classe e una galanteria sempre ispirata da attenzioni profonde. Con Joe, il simbolo del sesso e del glamour, capisce che sarà difesa dalla peggiore delle esperienze, quella che lei stessa descriveva così: «A Hollywood ti pagano mille dollari per un bacio e 50 centesimi per la tua anima. Io lo so perché ho spesso rifiutato la prima offerta e ho accettato i 50 centesimi». Joe DiMaggio sa che l’anima di Marilyn vale come un inestimabile tesoro. Ma per dimostraglielo conosce una sola via: vuole quell’anima tutta per sé. Detta con il linguaggio del gossip: è un marito geloso. Le leggi di mercato dello spettacolo mettono in evidenza che, per il sistema industriale di Hollywood, un mito come DiMaggio non ha più potere contrattuale di quanto ne avesse, a suo tempo, l’operaio Dougherty: Marilyn Monroe non può essere costretta nel ruolo di moglie. 274 giorni dopo le nozze, il matrimonio non c’è più (in mezzo c’è stata anche una scenata di Joe che sul set di Quando la moglie è in vacanza si è azzuffato con un curioso troppo entusiasta per le cosce nude di Marilyn, gonna al vento sulla grata della metropolitana). «Mi dispiace, mi dispiace tanto» si lamenta la superstar. Non è una frase di circostanza: lei intuisce che sono stati travolti da una incomprensione che forse sarebbe stata risparmiata a una coppia più comune. Significativo è un loro dialogo, dopo uno spettacolo di Marilyn davanti a qualche migliaio di soldati americani durante la guerra di Corea. «Sapessi cosa vuol dire essere acclamati da così tanta gente» gli aveva detto lei, con intento pedagogico. E lui, dopo un breve silenzio: «Lo so». Joe DiMaggio era abituato a vincere davanti ai centomila dello Yankee Stadium.

Quello che accade dopo è una corsa verso l’abisso. In pubblico Marilyn Monroe si fa ammirare anche per semplici battute (come quella fulminante: “Che cosa indossa per andare a dormire?” “Due gocce di Chanel n5”), in privato cerca un’oscura rivincita. Passerà di sconfitta in sconfitta. Prima con Arthur Miller, il drammaturgo suo terzo marito dal giugno del 1956. L’unione è una grottesca commedia degli equivoci, anche perché il corpo di Marilyn custodisce un cervello e un cuore che l’intellettuale egocentrico, sussiegoso, sostanzialmente insensibile, non riesce nemmeno a intuire. Per di più, negli ambienti che lui frequenta, Marilyn si sente persa. Persino nei film si sente inadeguata (sul set del Principe e la ballerina, il raffinato attore inglese Laurence Olivier ostenta palese insofferenza verso la grezza attrice americana), intreccia flirt senza gioia (con Tony Curtis, partner in A qualcuno piace caldo) e senza futuro (con Yves Montand, sposatissimo con Simone Signoret, durante la lavorazione di Facciamo l’amore).

Il divorzio è sancito il 20 gennaio 1961. Il marito se ne uscirà con una dichiarazione, sui tormenti della moglie, che è difficile definire coraggiosa: «Se esisteva una chiave per arrivare alla sua disperazione, non ero io a possederla».

Il giorno è lo stesso in cui si insedia alla Casa Bianca il presidente John F. Kennedy. Lei finirà nel suo carnet, insieme a Angie Dickinson, Rhonda Fleming, e molte altre stelle di Hollywood. E finirà anche spartita, questa volta sì come un pezzo di carne: con Bob Kennedy, il fratello del presidente ma pure con gli amici Frank Sinatra e Dean Martin. Su questo tramonto repentino, sigillato dal licenziamento da parte della Fox durante la lavorazione del film Something Got To Give, e concluso con la morte misteriosa nella notte fra il 4 e il 5 agosto 1962, molto si è ricamato. E si ricamerà. Al numero 12305 di Fifth Helen Drive a Hollywood, scena della morte, sono entrati in scena anche i servizi segreti e il suicidio (forse involontario, indotto da un micidiale mix di alcol e psicofarmaci) è diventato omicidio su commissione. L’unica cosa certa e struggente è l’amore di Joe DiMaggio, il geloso a cui l’amata è stata restituita massacrata e morta. Come un cavaliere antico, l’ha sepolta tenendo lontano i predatori che l’avevano sfruttata e finché il suo cuore ha retto ha portato rose alla sua tomba. Rispettando anche lo spiritoso epitaffio che lei aveva voluto come addio, e che, in fondo in fondo, gli rinfocolava la gelosia: Marilyn Monroe, bionda.

Articolo di Santi Urso pubblicato sul numero 23 di Confidenze 2011.

 

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