Solitudine digitale di Manfred Spitzer

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Nell'era del solipsismo tecnologico aiutiamo i nostri figli a sollevare lo sguardo dallo smartphone e a riconnettersi con se stessi

“Siamo convinti che per noi gioie e dolori dipendano strettamente dalla padronanza delle nuove tecnologie. Chi non vuol stare al gioco rimane indietro o, almeno, è così che si sente. E tutti i segnali esterni non fanno che confermarglielo. I più anziani, che non sono nati e cresciuti nell’epoca digitale, hanno spesso difficoltà a imparare il corretto utilizzo di Internet, computer, smartphone & co. Per questo tutti ritengono che i giovani vivranno una vita più facile e che debbano quindi essere iniziati alle nuove tecnologie il prima possibile. Ecco che per il corretto sviluppo dei propri figli si richiedono tablet per l’asilo, smartphone e console di gioco nelle scuole e, al più tardi dalla quinta elementare, i computer. È una cosa comprensibile. Si ignora, tuttavia, che lo sviluppo delle dipendenze è favorito soprattutto in età infantile e giovanile. Gli adulti, il cui cervello ha raggiunto il pieno sviluppo, riescono a resistere a una sostanza (o a un comportamento) che crea dipendenza. I bambini no. Tramite le nuove tecnologie digitali subiscono la loro iniziazione.

A tutto questo si aggiungano sedentarietà, impoverimento sensoriale, un esercizio costante della distrazione contrapposto a uno scarso esercizio delle azioni ragionate, non impulsive, disturbi dello sviluppo linguistico e una ridotta istruzione, tutte conseguenze comprovate delle tecnologie informatiche digitali nei bambini e nei giovani. Inoltre, i media digitali incidono in varia misura sul sonno e sulla vita sessuale (…). Si può affermare sin d’ora che la crescente digitalizzazione della nostra vita ha provocato una massiccia diffusione di casi di frustrazione, depressione e solitudine”.

Il testo dello psichiatra tedesco, che tanto destò scalpore alla sua uscita spaccando in due la reazione di pubblico ma anche di corporazione, è già roba superata. Quando si parla di rete e di social il tempo scorre ad una velocità vertiginosa e come una valanga porta via usi e costumi sedimentati se non per secoli almeno in parte. Questo saggio, uscito nel 2015, pur nel suo essere abbastanza apocalittico, letto oggi fa quasi tenerezza: siamo già almeno due o tre anni luce oltre.

Non è mio interesse demonizzare le nuove tecnologie e le nuove forme comunicative e relazionali che queste generano. Credo però sia importante, e per questo consiglio la lettura di questo testo a tutti, non accettare in modo passivo ogni evoluzione o involuzione: abbiamo una capacità critica, dovremmo tenercela stretta. È un dato di fatto che l’uso degli smart nei nativi digitali li abbia resi un po’ robotici: vedere questi bambini al ristorante ammaestrati davanti ad un tablet o ad un cellulare che non alzano lo sguardo per salutare gli amici dei genitori o per guardarsi intorno mette tristezza. La vita non può essere solo scorrimento su binari predefiniti, la vita dovrebbe essere soprattutto la sorpresa di una strada meravigliosi che scopri perché ti perdi (perdersi, parola che l’avvento delle mappe google ha mandato in soffitta), il libro che ti fa tirar mattina perché ti trascina in un mondo pieno di nuovi punti di vista (spesso passo ore in una libreria per la quale gestisco la comunicazione: molti lettori forti cominciano a dire cose spaventose del tipo ‘la sera non leggo più, tra una chiacchiera su whatsapp e l’altra il tempo vola’), la certezza che la persona con la quale stai parlando magari d’amore lo stia facendo a sua volta solo con te. Per tutto questo c’è bisogno di una rivoluzione grande: tornare a connettersi con se stessi, essere selettivi, essere padroni del tempo mediato dalla e nella rete e di quello libero da ogni gabbia digitale, sentire la necessità di avere le mani vuote per tornare a sentire forme diverse e non solo rettangoli asettici che promettono e quasi mai mantengono paradisi sintetici. È estate, cominciamo adesso. Raccogliamo un fiore, abbracciamo un amico, scriviamo una lettera con una penna, dedichiamo tempo educativo ai nostri figli. Che fatica? Lo so. È una grande fatica, una grande sfida, vivere davvero.

 

Manfred Spitzer, Solitudine digitale, Corbaccio

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