L’arte di rinascere

Sogni realizzati
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La storia vera di Ilaria Pavese raccolta da Marco Bergamaschi è stata la più votata del numero 33 di Confidenze

È stato difficile accettare di diventare sorda per una patologia degenerativa. Potevo soccombere o reagire e ho scelto di rimettermi in gioco, sfruttando la mia abilità manuale.

Ho scoperto talenti che non immaginavo di avere!

 

Sono nata con la matita. Quando ero ragazzina, mia madre lo ripeteva in continuazione. Mi piaceva disegnare e lo facevo ogni volta che ne avevo l’occasione. Mi bastava un minuscolo pezzo di carta e liberavo la mia fantasia: cieli azzurri pieni di aquiloni, cani e gatti con i colori dell’arcobaleno e il mio cuore scoppiava di felicità.

È stato naturale iscrivermi alla scuola d’arte e poi all’Accademia delle Belle Arti; vivevo per l’arte e la gente diceva che le mie mani erano magiche. E poi ballavo. Da sempre avevo la musica nel sangue e tutti i corsi organizzati dalle palestre erano occasioni che non potevo perdere. Così disegnavo e ballavo e non avrei potuto desiderare niente di più.

Terminati gli studi, ho cominciato a collaborare con uno studio di grafica come illustratrice: erano incarichi occasionali stimolanti, ma non mi permettevano di avere un’indipendenza economica e questo era un problema.

Così ho accettato la proposta di lavorare come scenografa nei villaggi turistici. La prima destinazione è stata l’isola di Zanzibar e, una volta arrivata, sono stata presto promossa come referente dell’area fitness. Ho lavorato in giro per il mondo per due anni: non disegnavo più, ma inventavo e montavo coreografie utilizzando tutti gli stili di ballo. Mi sentivo libera e appagata. Poi ho cominciato a stare male: accusavo vertigini e svenivo. Alla terza volta che succedeva, sono rientrata in Italia. Dalle prime visite sembrava una brutta otite, anche se la situazione peggiorava in maniera costante e io ci sentivo sempre meno.

Intanto avevo cominciato a lavorare come insegnante di fitness in un paio di palestre della città. Dal lunedì al venerdì stavo in sala otto ore al giorno e durante il fine settimana frequentavo i corsi della Federazione Italiana Fitness. Mi volevo specializzare il più possibile. In palestra mi avevano soprannominata “soldato Jane”: insegnavo con l’apparecchio acustico e le persone erano colpite dalla mia forza. In realtà era disperazione, ma loro non lo sapevano. Poi, dopo l’ennesima visita la diagnosi mi tolse ogni speranza: soffrivo di una patologia degenerativa che mi avrebbe portata alla sordità totale.

La parola “degenerativa” mi mandò profondamente in crisi: che cosa ne sarebbe stato di me? Che lavoro avrei potuto fare? Chi mi avrebbe accettata? E soprattutto la più difficile: perché proprio a me? Mille domande senza una risposta.

Sono andata avanti per altri dieci anni stringendo i denti: insegnavo nelle palestre, spronavo le persone a ballare e cambiavo spesso apparecchi acustici perché le parole degli altri erano sempre più lontane. Avevo anche scoperto che se lavoravo tanto non avevo tempo di pensare al mio problema.

Ma a un certo punto mi sono dovuta arrendere all’evidenza: lavorare in sala era diventato impossibile. La malattia stava cancellando tutti i suoni del mondo e tutta me stessa.

Con la disperazione nel cuore ho detto addio alla musica, al ballo e alla possibilità di essere creativa.

Ho iniziato a lavorare come segretaria e poi come operatrice in un call center, lavori lontani mille anni luce da me. Quando non ho sentito quasi più nulla, sono entrata ufficialmente nelle categorie protette; invece di essere felice perché ero tutelata in ambito professionale, mi è caduto il mondo addosso. Ero ufficialmente handicappata.

Senza saperlo anche la gente che incontravo mi gettava nello sconforto. Quando dicevo che ero sorda, parlavano in modo strano, scandivano le sillabe in un modo esagerato e, se potevano, mi escludevano dai loro discorsi.

È stato un periodo pesante, permeato da tristezza e da pensieri negativi. Le mie giornate avevano perso il colore, erano tutte in bianco e nero e per un certo periodo, quando mi coricavo la notte, speravo di non svegliarmi il mattino successivo. Mi ha salvato dall’oblio la mia anima da “soldato Jane” e un ragazzo con gli occhi azzurri di nome Stefano, che avevo conosciuto durante uno dei corsi di aggiornamento al call center. A lui sembrava non importare che a breve avrei vissuto nel silenzio. Ci siamo innamorati e lui è stata la mia salvezza. Soprattutto quando gli apparecchi acustici sono diventati inutili e il mondo è diventato totalmente silenzioso, Stefano mi è stato accanto e ha supportato i miei sbalzi d’umore, mi ha presa per mano e ha detto: «Non sei da sola, io sono accanto a te».

Ci siamo trasferiti in una casa fuori città circondata dal verde. Ogni mattina rimanevo seduta sotto il patio in compagnia dei miei cani che mi amavano per quella che ero, con le mie fragilità e debolezze, e ho cominciato a leggere libri di consapevolezza personale, accarezzata dalla brezza e dagli odori della campagna. La terra bagnata dalla pioggia, il profumo dei fiori e l’aroma degli alberi da frutto, tutto mi aiutava a riconnettermi con quella parte di me che avevo perduto. Lentamente sono rinata. Ho smesso di chiedermi perché era successo proprio a me e ho capito che avevo solo due vie: reagire o soccombere.

Senza quasi accorgermene ho ripreso in mano i pennelli, ho dipinto di rosa qualche parete e gli infissi di casa, poi ho cominciato a disegnare e a esplorare nuove forme d’arte. La sensazione che provavo era meravigliosa e più scoprivo nuovi mondi, più avevo voglia di mettermi in gioco. Senza un motivo particolare ero attratta dalle sculture di lana cardata realizzate con una vecchia tecnica di origini russe che permette di creare copie molto realistiche di qualunque soggetto. Con l’aiuto di un apposito ago picchiettavo la lana ripetutamente fino a darle la forma desiderata.

I primi modelli sono stati i miei cani. Ogni scultura che realizzavo mi regalava un senso infinito di appagamento e il mio cuore batteva all’impazzata. Gli amici hanno cominciato a chiedermi sculture raffiguranti i loro animali e a farmi da passaparola con altri amici e conoscenti. Nel giro di un anno sono arrivate richieste dal Giappone e dagli Stati Uniti e non ho più avuto un momento libero. La gente ha cominciato a dirmi che ero brava ed era disposta ad aspettare mesi per una mia scultura. Le loro parole sono state la conferma che avevo trovato la mia strada e che era iniziato un nuovo capitolo della mia vita. Mi è stato anche chiesto di realizzare un peluche che rappresentasse un cane che non c’era più. Non volevano qualcosa di immobile e rigido come la scultura, ma qualcosa di morbido, in grado di muovere la testa e gli arti. Ho accettato la sfida con entusiasmo e mi sono messa a studiare e a fare decine di prove: dovevo riuscire a creare qualcosa che fosse realistico e distante dai classici peluche venduti nei negozi. Il risultato ha sorpreso anche me e non mi sono più fermata. Oggi realizzo sculture, peluche e sono felice: la mia quotidianità è un’incredibile avventura.

La malattia che tanto ho odiato mi ha obbligata a fare un lavoro di introspezione duro, a reinventarmi e ad abbracciare una strada che mai avrei immaginato. Non è stato facile abituarsi al silenzio e ogni tanto piango, ma non sono lacrime di tristezza. Ricordare certi suoni mi emoziona: l’abbaiare dei miei cani, il suono del vento tra gli alberi e la voce di Stefano, il mio angelo dagli occhi azzurri. Quando mi chiedono di raccontare la mia storia, rispondo: «Sono come te, solo che è capitato a me. Potevo scegliere di vivere o di sopravvivere. Ho scelto di vivere alla grande». ●

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