La figlia oscura di Elena Ferrante

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Non basta sentirsi madre un giorno per sentirsi così sempre. Ogni meccanismo può incepparsi. I sentimenti, i legami, non sfuggono a questa legge. Un romanzo che fa parlare le parole scomode

Molti libri li amiamo perché c’è qualcosa di noi che riconosciamo, tra quelle pagine. E amiamo sempre quello che somiglia a noi o ai nostri errori.

Essere genitori. La retorica ufficiale vuole farci credere che tutto sia spontaneo, naturale, ovvio.

Per Leda, protagonista dell’immenso romanzo breve di Elena Ferrante, La figlia oscura, Bianca e Marta, le sue due bambine, rappresentano la gabbia.

Non basta, per una donna, partorire per sentirsi madre. Non basta sentirsi madre un giorno per sentirsi così sempre. Ogni meccanismo può incepparsi. I sentimenti, i legami, non sfuggono a questa legge.

Le speranze della giovinezza parevano già tutte bruciate, mi sembrava di precipitare all’indietro verso mia madre, mia nonna, la catena di donne mute o stizzose da cui derivavo. Occasioni mancate. Le ambizioni erano ancora brucianti e alimentate dal corpo giovane, da una fantasia che sommava progetto a progetto. Mi pareva di essere reclusa dentro la mia stessa testa senza possibilità di mettermi alla prova, ed ero esasperata”.

Leda lascerà il marito e le due figlie. Fuggirà in Inghilterra. Un altro uomo, un grande amore, certo. Ma come se fosse davvero per questo che una donna a un certo punto va via. 

È un momento di costruzione personale. Che non puoi farne a meno, se hai dentro un senso che hai tentato di soffocare. Se hai un dolore che ti fa odiare il tuo non essere ancora nata e la fisicità sfacciata di chi da te ha preso corpo, consistenza, movimento, autonomia, linfa.

Elena Ferrante ci porta al mare. E fa parlare Leda. Fa parlare una bambola rubata a una bambina. Fa parlare le parole scomode. Quelle che raccontano i moti della tragedia umana. Della crisi. Del lavoro durissimo che la vita quotidiana chiama a fare per superarla. Leda racconta le paure. Le sconfitte. Le delusioni. Gli amori dolorosi. Il disincanto. La solitudine.

“Perché hai lasciato le tue figlie?”

“Le amavo troppo e mi pareva che l’amore per loro mi impedisse di diventare me stessa”

“Non le hai mai viste per tre anni?”

Feci cenno di sì.

“E come ti sei sentita senza di loro?”

“Bene. Era come se tutto di me franasse, e i miei pezzi precipitassero liberamente da tutte le parti con un senso di contentezza”

“Non sentivi dolore?”

“No, ero troppo presa dalla mia vita. Stavo come una che si sta conquistando la sua esistenza, e sente una folla di cose contemporaneamente, tra cui anche una mancanza insopportabile”

Mi guardò con ostilità.

“Se stavi bene, perché sei tornata?”

“Perché mi sono accorta che non ero capace di creare niente di mio che potesse veramente stare alla pari con loro”

Ebbe un improvviso sorriso contento.

“Allora sei tornata per amore delle tue figlie”

“No, sono tornata per lo stesso motivo per cui me n’ero andata: per amor mio”

Si adombrò di nuovo.

“Cosa vuoi dire?”

“Che mi sono sentita più inutile e disperata senza di loro che con loro”.

Bisogna avere, sentire, la libertà di andare via. Per poter tornare davvero.

Bisogna avere il coraggio di scrivere le cose scomode, per raccontare il mondo, noi stessi, l’amore.

 

Elena Ferrante, La figlia oscura, Edizioni e/o

 

 

 

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