Il cielo

Cuore
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La storia più apprezzata del n. 41 di Confidenze è “Il cielo”. Ve la riproponiamo sul blog

 

Storia vera di Flavio C. raccolta da Sara Perla Grossi

 

Il cielo, il cielo è uno! Ma per ogni luogo, magicamente sembra  cambiare. I colori sono diversi dall’altra parte del mondo. A volte nemmeno è necessario andar così lontano. In Africa le notti stellate lo illuminano, ed è un incanto. Viali che puoi percorrere con la fantasia di un bambino e gli alberi sono le stelle.

È stato li che ho deciso quello che sarei diventato da grande. Mentre mi arrampicavo sulle stelle del cielo africano, già sapevo che fare il pilota d’aereo non poteva che essere la mia strada. In Africa andavo a trovare mio padre. Un diplomatico dell’ambasciata italiana.

«Flavio, Flavio dài; il taxi è giù che ci aspetta» urlava mia madre. «Non puoi ogni volta portarti dietro tutti i tuoi modellini, uffa quanta pazienza» continuava borbottando. E io non la ascoltavo. I miei modellini di aereo li portavo sempre con me. Per nessuna ragione al mondo li avrei lasciati a casa. Poteva essere che le “vacanze africane”, come le chiamava mia madre, di colpo si trasformassero, fino a diventare la mia casa per sempre. Non lo sapevo allora, che il “per sempre” dei bambini prende altri significati da adulti. Mantenevo così intatto il mio essere previdente. Ero felice in Africa, esattamente come lo ero a Torino e come lo sarei stato in qualsiasi parte del mondo. «Sai Sara, mi bastava alzare gli occhi al cielo per essere felice» dissi. «Non ce la fai a parlarne, vero» rispose, un passo avanti, come sempre era stata.

«No, ma lo penso tutti i giorni» dissi ancora.

Poi, mi alzai di scatto. Sapevo di dover andar via. Ancora via. I miei occhi si stavano facendo lucidi. E lì, seduto su una panchina, non mi sentivo a mio agio. A settant’anni piangere come un bambino, lo trovavo poco dignitoso. E delle lacrime avevo paura. Era davvero difficile per me condividere questo dolore. Mi nasceva da dentro, il continuo parto dei pensieri. A gola stretta e ingordo d’aria, cercavo il modo per non soffocare. Una spanna tra il mio male e gli altri, poteva bastare. Gli altri, chiunque non fossi io. Sempre pieni di parole giuste, nel dolore che non gli appartiene. Parole, come a fare scudo alla morte.

Sara, l’avevo conosciuta vent’anni fa. Era una ragazzina. Commessa in uno dei primi mercatini dell’usato, dove ero capitato per curiosità. È strano come la vita in modo casuale e spontaneo ti leghi ad altre persone. È strano l’esistere di sentimenti che non hanno classificazione, che non possono subire il tempo. Forti, resistono. Da subito mi era piaciuto il suo modo d’essere. Ogni suo sorriso era un abbraccio. Sentito, potente, stretto e amorevole. Diventai cliente e fui tesserato. Sara scoprì quello che era il mio mestiere, o meglio quello che era stato. Dopo un microinfarto, ero già in pensione. Solo di tanto in tanto mi prestavo come volontario per spegnere gli incendi. Utilizzavo un Canadair. E in azione mi sentivo ancora utile. Ischia, Genova, Cagliari erano le mie destinazioni. Operare in Sardegna metteva a dura prova il mio fisico. Era un continuo andirivieni. Sempre una corsa contro il tempo. Ma ho sempre portato a buon fine il mio lavoro.

«Lo so, sono impertinente e curiosa» disse, mentre trascriveva i miei dati dal documento d’identità. «Ha mai visto gli ufo nei cieli?» chiese emozionata.

«Per dieci anni sono stato pilota militare e poi per altri quindici civile e, no, non ho mai visto nulla di non conosciuto» risposi divertito. «Ma attenzione, un mio caro amico sì» aggiunsi. Ed era la verità. Ricordo che durante una ricognizione, Aldo comunicò alla torre di controllo di trovarsi all’inseguimento di uno strano oggetto non identificato. La comunicazione appariva concitata. Sembrava trovarsi in uno stato di agitazione. Ma non emergeva, dal suo modo di comunicare, confusione. Le parole erano ben scandite. Seguivano il giusto protocollo. Si schiantò poco dopo in una pianura lombarda. Morì sul colpo, senza causare danni alle persone. Cosa abbia visto non l’ ho mai saputo. So che era un pilota esperto. So che la manovra che lo ha condotto allo schianto l’ha effettuata di proposito. Un veloce calcolo per non coinvolgere nessun civile. Vidi allora lo sguardo di Sara brillare. Mi sarebbe piaciuto poterle raccontare molto di più, tutto quello che si aspettava. Pensai al fatto che il bisogno di credere è veramente necessario all’essere umano. Credere è una speranza di continuità. E io non ero diverso. Lo avrei scoperto di lì a pochi mesi.

Quando il telefono squilla la notte è di brutto presagio.

«Flavio, sono Chiara» era la compagna di mio figlio. «Deve venire al Pronto Soccorso, Luca non sta bene» disse frettolosamente.

Lo sai, lo senti dal tono di voce di chi ti chiama. La voce trema, le parole sono ripetute più volte, senza pause tra una e l‘altra. Lo senti, avverti il tuo ruolo di padre venir meno. Qualcosa si interrompe di colpo. È allora che diventi frettoloso. Ti infili un maglietta, quella sporca, quella che avevi lasciato in bagno nel cesto della biancheria da lavare. Prendi proprio quella, perché? Non lo sai il perché e mai ti sarà dato da sapere. Esci di casa senza chiudere la porta e cominci a correre verso l’ospedale.

Vorresti che il tempo si fermasse per fare tutte quelle piccole cose e gesti che ti sei risparmiato, per pigrizia, per non essere invadente, perché rimandare a domani è una certezza. Una cena, un abbraccio.

«Figlio mio ti voglio bene, ti amo» urlavo silenziosamente dentro di me. Cercavo di essere composto. Non sapevo esattamente come stessero le cose, ma la mia anima evidentemente sì. La sentivo strapparsi.

«Luca Boni è qui?» chiesi all’accettazione. «Lei chi è ?» mi domandarono.

«Sono suo padre» risposi gonfio di orgoglio e paura.

Nel mentre, vidi Chiara uscire da una stanza. Mi si fece avanti scivolandomi addosso. Visibilmente sconvolta mi abbracciò. La sua presa, perse la stretta e si lasciò cadere ai miei piedi. «È morto, è morto» ripeteva ormai inginocchiata.

Cercai di alzarla, la sostenni un poco. Ma poi la lasciai, abbandonandola in mezzo al salone. Non era più niente per me. Lì, in mezzo al salone: un’estranea. Mi diressi nella stanza dalla quale era uscita. E mio figlio bello, forte e giovane giaceva morto. Un’anomalia congenita al cuore, non lo avevamo mai saputo sua madre e io. Rebekka, di tempra forte, tedesca in tutto e per tutto non lo sapeva di certo. Me lo avrebbe detto, anche se dopo il divorzio i nostri rapporti furono inesistenti.

Luca era piccolo quando me ne andai di casa. Andavo a prenderlo come stabilito da un giudice. Rebekka era un’assistente di volo. L’avevo conosciuta su una lunga tratta. Destinazione Australia. Me ne innamorai subito.

I suoi occhi azzurro ghiaccio erano di indescrivibile bellezza. Grandi con lunghe ciglia nere: facevano da cornice a uno sguardo che sembrava non finire mai. Dopo pochi mesi le chiesi di diventare mia moglie, accettò senza stupore e senza un apparente entusiasmo. Era tedesca, era lei a giustificarsi. Usava la sua nazionalità per non dare mai spazio alla sensibilità. Come se, tutti i sentimenti del mondo, un tedesco fosse obbligato a viverli freddamente. Ero davvero innamorato di lei, ma ero anche facile a cadere in tentazione. Delle mie scappatelle veniva sempre a conoscenza. Del resto non ero nemmeno tanto furbo da pescare in altro mare. Quelle donne erano sempre colleghe. Era stata mia la colpa di questo fallimento. Lo sapevo, ma ormai era passato così tanto tempo. «Svegliati Luca, per favore», lo guardavo nella speranza di un respiro.  Non facevo che guardarlo, con la mia faccia che ormai era diventata di gomma. Mi sarei preso a pugni se ne avessi avuto la forza.

E invece la mia mano continuava solo a palpeggiare le guance e le mie labbra. Sentivo di fare trazione verso l’esterno, come per deformare il mio volto. Assumendo lineamenti mostruosi, come era questo momento. Rebekka arrivò da Berlino che ormai era giorno. Dura, mi allungò la mano e me la strinse. Baciò suo figlio, nostro figlio e uscendo da quella stanza disse: «Ci sentiamo per i particolari del funerale, mio figlio verrà sepolto a Berlino».

«Mio figlio viene a Berlino questa volta» lo ripeté urlando, puntandomi il dito. Era arrabbiata, con me, con la vita forse. Non credo mi avesse mai perdonato, lo stesso valeva per me. Ma oggi che importanza poteva avere tutto questo? Che importanza poteva avere dove Luca sarebbe andato a riposare? Glielo concessi, di portarselo via. Questa volta sì. In passato, durante la separazione aveva espresso il desiderio di tornare a vivere in Germania con lui. Non ero d’accordo e glielo avevo impedito. Era stato un dispetto. Ero stato egoista.

Ero! Ma quando realizzi che non ci saranno più stagioni per te, quando capisci che sarà un lungo inverno il resto della tua vita, gli errori del passato smettono di essere stati.

Dopo la sua morte, vagai alieno per casa. Bevevo fino ad arrivare a essere in uno stato di ottundimento. Non pensare, non capire era lo scopo della mia vita.

Non era il dolore, che non sapevo affrontare, ma la mia faccia stanca e delusa. La mia segreteria ormai piena, non registrava più messaggi. Una mattina mi obbligai però ad ascoltarli. Messaggi che rinnovavano il mio dolore ferocemente. A un certo punto udii la sua voce. Era Sara.

«Flavio, sono Sara. Eliana mia ha detto quello che è successo a suo figlio. Flavio, mi manca tanto vederla. Vorrei abbracciarla, lo so che…» il messaggio si interruppe.

«Stupida» pensai, «stupida» e intanto mi vestivo per andare da lei.

Mi corse incontro, mi abbracciò. Non provavo nulla.

Poi mi guardò dritta negli occhi. «Non la vedo, Flavio, non la vedo» disse tristemente. «Come si chiamava, non le chiederò nient’altro, solo il suo nome» chiese, abbassando lo sguardo. «Luca», e qualcosa si smosse dentro.

Un’eco, Un sopito ricordo. Una voce di bambino, acuta, che punge: «Papà, io non voglio volare mai». «Gli aerei ti portano via da me». «Papà, quanto stai a casa, quanto ti fermi?».

Un senso di costrizione mi prese, dovetti andar via. Sara mi lasciò andare. Sapeva che sarei tornato presto o tardi. Così feci mesi dopo, ed era lei a non esserci. Il suo datore di lavoro mi disse che era rimasta incinta. Una gravidanza a rischio l’aveva costretta al riposo assoluto. «Se la sente, me la saluti». Me ne andai con un peso.

Per quasi vent’anni non la vidi più. Non ci pensai mai molto. Capitava però, di farlo nelle occasioni in cui venivo abbracciato o mentre ero io a donare un abbraccio. Mi coglieva un sorriso, sempre. Un giorno per strada mi sentii chiamare e voltandomi la riconobbi subito. Si era fatta donna, ma inconfondibili e intatti erano rimasti il suo stupore e il suo entusiasmo. «Flavio, ero certa che fosse lei». «È sempre stato nei miei pensieri» disse.

«Tuo figlio, sapevo che aspettavi un figlio» era tutto quello che avevo da chiederle. «Ha 19 anni, si è diplomato al Classico quest’anno» rispose orgogliosa. Lo stesso orgoglio che io, costretto, avevo steso sul letto alla morte di Luca.

«Ti posso offrire un caffè?» le chiesi. «Sì, certo» rispose.

Parlammo a lungo. Sara era sempre molto curiosa e la mia vita prima di Luca sembrava essere motivo di forte interesse. Riusciva, lei davvero riusciva a portarmi indietro. Alla gioia. Era il volo, la traiettoria, il cielo, non la meta a interessarla. L’analisi del cielo, ogni centimetro di azzurro, di blu, di nero, di grigio. Era la spaccatura di una nuvola.

«Credi ci sia onnipotenza in un volo?» dovetti chiederglielo data la sua morbosa curiosità. «No, ma l’eternità sì» affermò sicura.

Rammentai allora, una frase di Rimbaud: “Ho trovato l’eternità: il sole in comunione con il mare”. La modificai sulla base della sua risposta. Così cielo e terra divennero eternità. Lei, lei che aveva paura del volo era più cielo di me. E io che avevo conosciuto l’angelo della morte, ormai non ero altro che terra «Non volo più, dal giorno del funerale di Luca» dissi. «Da passeggero intendo» specificai. E poi mi chiusi. Pagai il caffè e me ne andai. Spalle curve e pesanti, passo rassegnato e perso.

«Flavio, ci vediamo domani» urlò.

Ogni giorno alla stessa ora ci si incontrava. Dopo il caffè ci si sedeva sulla panchina vicino al bar. Un platano faceva grande ombra, dando l’idea di non essere in città.

Discorsi, tanti discorsi, ma poi immancabilmente arrivava il mio momento di disagio. Quando irrefrenabile era il bisogno di andar via. Mai per un momento pensavo di lasciarla sola. Era come dipingere un quadro. Lei in posa, ferma. In attesa. Era in attesa di vedersi lasciata.

La stessa che lei aveva imposto a me per ben vent’anni. Ero rimasto male. Ricordavo davvero la sensazione di abbandono che avevo avvertito nel non trovarla. Il giorno che lei non arrivò a quello che ormai era un appuntamento, mi preoccupai. In attesa.

Ancora. Forse non mi aspettava più. In attesa. Era diventata una mancanza. Il giorno dopo e poi quello dopo ancora, lei non arrivò.

 

Ero in affanno. Io altri vent’anni non ce li avevo. E lei era il solo momento sereno delle mie giornate.

«Flavio, abita sempre lì, allo stesso indirizzo?» mi ricordai di questa domanda, che mi fece il giorno prima di sparire. Questo ricordo mi indusse a credere in un imminente arrivo di sue notizie, attraverso la posta. Una lettera, che non arrivava mai.

Ne passarono di giorni, di settimane, dove la mia casella era sempre vuota.

Poi finalmente una cartolina dall’Africa. Era di Sara, e io non potevo crederci. Aveva trovato il coraggio.

“Così di colpo ho raggiunte le stelle, le tue stelle. È bastato alzare gli occhi al cielo per realizzare che l’impossibile non esiste. Le posso perfino toccare, come nessuno mai. E lì in una stella che forse è la più splendente riposa eterno qualcuno a te caro. Lo sento, lo vedo, lo tocco. È meraviglioso! A presto Sara”.

Aveva capito tutto Sara. Tutto! A me c’erano voluti vent’anni e il suo aiuto, la sua sensibilità. Non la vedrò più lo so. Ma ogni volta che sorvolo il cielo dell’Africa con il mio biplano, la stella più splendente me la ricorda.

Sono sicuro che anche lei, guardando in su, si ferma ad abbracciarmi. Il cielo, il cielo è uno.

E io sono nuovamente felice.

Confidenze